La virtù di Lucrezia messa sotto processo da Sant’Agostino.
di Maria Pellegrini
Nel 509 a. C., il popolo romano insorge contro il re etrusco Tarquinio chiamato il Superbo perché dispotico e altezzoso. Da quel momento è la fine della Monarchia e l’inizio della Repubblica romana. La cacciata dell’ultimo re nasce dalla rivolta della città contro l’arroganza e la corruzione morale del sovrano e della sua famiglia.
La storia dei quegli anni ci presenta Tarquinio, re etrusco, come un uomo che ridusse al minimo il ruolo del Senato provocando lo scontento negli aristocratici, “i patrizi”, la classe dei cittadini privilegiata per nascita e per censo desiderosa di sbarazzarsi del dominio degli etruschi che con gli ultimi tre re avevano governato la città. Si crearono così forti elementi di tensione con un potere monarchico odioso ai romani perché rappresentava un modello di monarchia autoritaria. Sarebbe bastata una scintilla a far divampare il fuoco della rivolta. La leggenda raccontata da Tito Livio, e da Dionigi di Alicarnasso, storici d’età augustea, vuole che ad accendere quell’incendio fosse stata la violenza subita da Lucrezia, nobildonna romana, da parte di Sesto Tarquinio, figlio del re. Riassumiamo in breve il racconto di Livio:
La vicenda di Lucrezia si colloca all’epoca del re Tarquinio durante l’assedio di Ardea - uno dei centri più importanti del Lazio meridionale dall’VIII al VI sec. a. C., facente parte della Lega latina contro Roma -. Tra i combattenti c’erano anche Sesto Tarquinio, figlio del re, e Collatino, nipote del re e cugino di Sesto. Una sera mentre era insieme con altri amici si cominciò a discutere delle proprie mogli, ma ben presto sorse una disputa, in quanto ciascuno esaltava la propria. Collatino propose di andare a verificare personalmente il comportamento delle spose con una visita improvvisa e scommetteva sulle virtù della moglie Lucrezia. Si misero in viaggio. Giunti a Roma sul far della sera, trovarono Lucrezia “non come le nuore del re, dedite al lusso e ai conviti ma seduta in mezzo all’atrio, a tarda notte, intenta a filare la lana in compagnia delle ancelle”. Collatino, vincitore della scommessa, decise di invitare a cena i giovani compagni. “Un’insana libidine di violentare Lucrezia colse, a un tratto, Sesto Tarquinio: lo esaltavano, soprattutto, la mirabile castità e la bellezza della donna”. Perciò nei giorni successivi alla cena si recò da solo nella casa di Lucrezia che lo accolse con tutti gli onori, ma il giovane di notte s’introdusse armato di spada nella stanza da letto della donna che provò a respingerlo, ma Sesto minacciò “che l’avrebbe uccisa e accanto a lei avrebbe messo il corpo mutilato di uno schiavo, e avrebbe poi sostenuto di averla colta in flagrante adulterio. Con questa spaventosa minaccia, la libidine di Tarquinio ebbe, per così dire, la meglio sull’ostinata castità di Lucrezia”. Quindi, Sesto, fiero di aver violato l’onore di una donna, ripartì. Lucrezia mandò messaggeri al padre e al marito pregandoli di tornare immediatamente a Roma perché “era successa una cosa spaventosa”. A loro raccontò l’accaduto, e poi, dopo essersi fatta giurare che avrebbero vendicato la violenza subita, afferrato il coltello che teneva nascosto sotto la veste, se lo piantò nel cuore e cadde a terra esanime. Il marito aveva cercato di convincerla a desistere da tale atto violento contro se stessa: “L’animo non il corpo è colpevole: dove non ci fu consenso non c’è colpa, urlò Collatino, ma non servì. Fu davanti al corpo morente di Lucrezia che Giunio Bruto, amico di Collatino giurò di abbattere la monarchia etrusca. “Per questo sangue purissimo, giuro, e vi chiamo come testimoni, che perseguiterò Lucio Tarquinio Superbo, e tutta la stirpe dei suoi figli con ferro, fuoco e con qualunque forza possibile, né a loro né ad altri consentirò di regnare a Roma”: con queste parole incitò il popolo romano alla rivolta, con la conseguente fuga in esilio di Tarquinio. Stando a Livio, “Lucio Tarquinio regnò venticinque anni. Dalla fondazione di Roma il potere monarchico era durato 244 anni, durante i quali si erano succeduti sette re”.
L’aristocrazia dunque, dopo aver cacciato i re etruschi, volle mettere lo Stato in sicurezza, creando una nuova forma di governo che potesse scongiurare ogni forma di autorità assoluta. Nacque la Repubblica. Il potere non fu più affidato a un uomo solo, ma a un collegio di due consoli, designati annualmente attraverso pubbliche elezioni; i primi furono Bruto e Collatino.
Livio dichiara: “D’ora in poi tratterò le imprese compiute in pace e in guerra dal popolo romano divenuto libero, le magistrature annue e il potere delle leggi, più potente di quello degli uomini. La superbia dell’ultimo re era stata il più forte incentivo a rendere più gradita la libertà”.
Si è spesso discusso riguardo alla veridicità del rapporto causale tra oltraggio a Lucrezia e caduta della monarchia. È chiaro che in questo caso i dati relativi la leggenda non sono confortati dalla verisimiglianza storica. Naturalmente era la situazione sociale e politica ad essere matura per il rivolgimento costituzionale, il colpo di mano dell’aristocrazia a scapito dei sovrani in carica rientra in un più generale declino della supremazia etrusca nella penisola. Dopo la sconfitta degli etruschi nella battaglia di Aricia (odierna Ariccia) i patrizi furono incoraggiati alla rivolta. L’episodio di Lucrezia, a prescindere dalla sua storicità, ha il valore emblematico che sempre hanno le scintille che causano “incendi” storici. Tarquinio rappresenta l’arbitrio, la violenza, la sopraffazione; Lucrezia, l’incarnazione delle virtù civiche che si oppongono all’arbitrario esercizio del potere.
Al di là della leggenda, è chiaro che al tempo di Tarquinio il Superbo doveva essere giunto al suo massimo livello il processo di decadenza della monarchia, dovuta agli eccessi di autorità che i re etruschi mettevano in atto per far fronte alle nuove esigenze della città-stato in espansione, accentrando il potere nelle loro mani a scapito dell’antica aristocrazia romana.
La tragica vicenda di Lucrezia è uno dei più celebri episodi della narrazione di quella Roma degli albori in cui storia e mito si mescolano e si confondono. Si tratta di un tema che ha ispirato scrittori e artisti di ogni epoca: da Tito Livio a Ovidio, da Boccaccio a Shakespeare e, nell’arte, è stata rappresentata da Botticelli, Raffaello, Tiziano, Tiepolo, Veronese, Guido Reni.
L’utilizzo che se ne fece fu prevalentemente politico: iconograficamente, nel Rinascimento e nel Barocco, nei palazzi pubblici e nobiliari gli affreschi, i dipinti e le sculture proponevano come “exempla virtutis” la storia delle origini di Roma. L’intento era di esprimere simbolicamente e allegoricamente modelli di integrità morale.
Ma ai nostri occhi contemporanei la figura di Lucrezia non può che rappresentare un’occasione di riflessione sulla violenza contro le donne, una piaga che ancora non è stata estirpata nella società moderna.
Sull’esaltazione che gli antichi fecero di Lucrezia, una donna che se pur innocente era colpevole di essersi data la morte, Sant’Agostino non è d’accordo e la contrappone alle tante donne cristiane, violentate dai pagani, che subirono la violenza ma non si uccisero. Immagina di parlare in un processo che deve esaminare il gesto di Lucrezia e rivolta ai giudici porta queste argomentazioni:
“Se voi foste i giudici di un delitto, cioè l’uccisione di una donna casta e innocente, non colpireste con la dovuta severità chi avesse commesso il reato? Ma lo ha commesso Lucrezia, proprio quella Lucrezia, tanto esaltata, ha giustiziato la Lucrezia casta, innocente, violentata. Pronunciate la sentenza. Poiché non potete pronunciarla non essendo presente la persona da condannare, mi domando per qual motivo esaltate con tanto encomio l’assassina di una donna innocente e onesta!”
Naturalmente si deve tener presente che per i cristiani era, ed è, colpa gravissima il suicidio e quindi è da condannare anche la morte che Lucrezia ha voluto darsi dopo aver subito uno stupro.
Agostino, considerando che Lucrezia era una pagana aggiunge che i giudici dell’Oltretomba l’avrebbero condannata a stare negli Inferi tra gli innocenti che si diedero la morte. Ma non contento di ciò getta su Lucrezia il sospetto che potrebbe non essere innocente:
“Se infatti, e questo poteva saperlo soltanto lei, travolta anche dalla propria passione, acconsentì al giovane che la prese con la violenza e per punirsi del fatto si pentì al punto di pensare di espiarlo con la morte, anche in questo caso non doveva uccidersi se poteva fare presso i suoi falsi dèi una salutare penitenza. Ma se è così, cioè che entrambi commisero adulterio, lui con aggressione palese, lei con assenso nascosto, non si uccise innocente. In tal caso si può dire ai letterati suoi difensori che nell’oltretomba pagana non potrebbe stare fra quelli che innocenti si diedero la morte. Si pone in questo caso il dilemma: se ha consentito all’adulterio, perché è lodata? se era onesta, perché si è uccisa?”
Agostino, vescovo, padre della Chiesa e futuro santo, sembra voler confermare il detto latino “vis grata puellae”, la violenza è gradita alla fanciulla, derivato da un verso dell’“Ars amatoria” di Ovidio: le fanciulle si presentano pudiche e ritrose, in modo da non apparire spudorate, ma sono pronte a subire di buon grado l’aggressività sessuale del maschio; quindi la violenza esercitata dall’uomo per vincere la resistenza della donna, risulterebbe a lei gradita. Non ci vuole molto per riconoscere come queste argomentazioni siano tuttora presenti nel giudicare casi di violenza sessuale.
Lo scopo di Agostino era quello di dimostrare la superiorità delle donne cristiane sottoposte a violenza nei confronti di quelle pagane. Per questo il comportamento di Lucrezia viene sottoposto ad un esame scrupoloso con questo risultato: se Lucrezia si è uccisa è perché in qualche modo si riteneva colpevole, tale colpa può solo essere l’aver in qualche modo consentito alla violenza.
Si è discussa questa interpretazione di Agostino e alcuni hanno supposto che la morte di Lucrezia sarebbe non un atto volontario, ma la punizione per l’adulterio data dal tribunale familiare costituito dal marito e dal padre di Lucrezia. Tale forma di processo familiare esisteva in diritto romano per questi casi. Il racconto liviano però non offre appigli per una interpretazione di questo genere. Anche taluni storici moderni hanno interpretato il suicidio di Lucrezia come una punizione da lei stessa inflitta per aver, alla fine, seppur obtorto collo, provato piacere e quindi aver accettato la violenza di Tarquinio.
Queste due disamine sono una lettura degli avvenimenti secondo una visione maschilista, perché Livio dice esattamente che Lucrezia decide di morire non potendo vivere con il disonore di essere stata violentata, e si vendica facendo giurare ai suoi che il misfatto di Tarquinio non resterà impunito. Si dà la morte, pur non avendo colpa, per far in modo che la sua fama nei secoli futuri corrisponda alla vita virtuosa da lei condotta.
Immagine: Tiziano, Lucrezia, nel Kunsthistorisches Museum di Vienna.
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