di Maria Pellegrini.

Leggo su ilsole 24 ore «Si registra una forte crescita della richiesta online di bottiglie di vino, considerato uno dei beni di prima necessità che non deve mancare in casa, insieme a tutto ciò che da sempre viene regolarmente acquistato, fuori o dentro dello stato di emergenza. L’aumento della frequenza d’acquisto e del numero delle bottiglie richieste dal singolo cliente, unitamente alla selezione di bottiglie mediamente meno care, evidenziano l’intento di fare scorte al fine di avere sempre in tavola un buon vino che tenga compagnia e allevi un po’ le angosce che l’intera nazione sta vivendo in queste durissime settimane».

Per i greci dall’età omerica in poi, il vino era il dono di Dioniso, dio giunto dalla Tracia, diverso rispetto agli altri dei olimpici: il suo dono dispensava allegria e liberava dalle preoccupazioni. L’ebbrezza che causa era vista come una compensazione degli affanni della vita, liberazione dell’identità quotidiana. Per i rischi che comporta un uso smodato, il vino era mescolato con acqua nel cratere, un grande vaso, il cratere, dove era versato il vino misto ad acqua da distribuire ai partecipanti con un apposito mestolo. Non si beveva da soli ma in gruppo, nel simposio (“simposio” significa proprio “bere assieme”), una riunione di soli uomini, un’istituzione sociale importante nella vita degli aristocratici. I partecipanti era incoronati con ghirlande di fiori e cosparsi di balsami profumati. Vi potevano partecipare le etere, giovani donne, le uniche ammesse e appositamente convocate: per suonare l’aulòs (il più importante strumento a fiato, molto presente nelle raffigurazioni vascolari, simile al nostro oboe) e danzare. Il simposio si teneva dopo il tramonto.

Nei due poemi omerici non poteva mancare la presenza del vino durante un banchetto o un semplice pasto. Nel racconto di Odisseo fu fatale a Polifemo aver bevuto il vino offerto a lui dallo straniero approdato nell’isola. Vista da lontano una spelonca, Odisseo con dodici amici decise di andare a vedere chi vi abitasse. Così l’eroe racconta quella avventura:

«Avevo con me un otre pieno di vino scuro e dolce che, nella terra dei Ciconi, mi aveva dato Marone, figlio di Evanto, il sacerdote di Apollo protettore di Ismaro che mi offrì splendidi doni tra i quali un cratere tutto d’argento, e poi mi dette, versandolo in dodici anfore, del vino puro, dolcissimo, meraviglioso. Quando si beveva quel dolcissimo vino rosso, lui ne mischiava una sola tazza con venti di acqua».

Questo vino in età romana era chiamato “vino di Maronea”, prodotto proprio nelle terre costiere della Tracia, a Ismaro, abitate dai Ciconi dove era approdato Odisseo. I Greci non bevevano mai vino puro e lo mescolavano di solito di una parte di vino e due di acqua; quello donato all’eroe era talmente buono da poter essere allungato anche con più acqua per preparare una bevanda prelibata. L’eroe conservò gelosamente sulla nave quel vino donatogli dal sacerdote di Apollo; se ne ricordò al momento dell’incontro con Polifemo, intuendo che poteva essergli utile. Ne riempì infatti un otre e fu quello che offrì al Ciclope, nel tentativo di ingraziarselo e sperando di stordirlo. Ed infatti Polifemo non si fece pregare. Così racconta Odisseo il fatto:

«Prese la coppa, bevve ed un supremo gusto /di quella soave bevanda lo invase tanto che ne chiese dell’altra. / Tre volte io gliela stesi e tre volte ne bevve lo stolto».

Quando Odisseo tornò a Itaca vestito da mendicante si rifugiò presso il porcaro Eumeo e nel corso di un discorso pronunciò questa frase:

«Il vino mi spinge, il vino folle che fa cantare anche l’uomo più saggio / e lo fa ridere sguaiatamente, lo costringe a danzare / e gli tira fuori parole che sarebbe meglio tacere».

Anche in questo caso Omero cita il vino suggerendo che se si beve in modo smodato anche per l’uomo saggio può essere un pericolo.

Con i lirici del VII e VI secolo a.C. il vino, e con esso l’amore, diventò protagonista delle opere poetiche. Era l’epoca in cui il simposio raggiunse il suo apice.

Alceo, è uno dei poeti più significativi della lotta politica a Mitilene verso la fine del VII secolo a. C. Nato da famiglia aristocratica, fu costretto all’esilio per l’arrivo del tiranno Mirsilo. Quando queste cadde in disgrazia, il poeta lo annunciò con gioia come leggiamo in un frammento che verrà ripreso anche da Orazio nella celebre frase “Nunc est bibendum” per la morte di Cleopatra:

«Ora bisogna che ognuno si ubriachi e beva a forza, perché è morto il tiranno Mirsilo».

Nel canto di Alceo il vino diventa gioia fisica, sensazione corporea, il vino è compagno nella gioia e nel dolore, nella sofferenza per la delusione politica; placa le angosce, è una bevanda inebriante, dono del dio Dioniso:

«Beviamo! Perché aspettare le lucerne? / Breve è il tempo./ O amato fanciullo, prendi le grandi tazze variopinte, / perché agli uomini il figlio di Zeus e di Sèmele diede / il vino / per dimenticare i dolori: mescilo con una parte di acqua /e versa coppe piene fino all’orlo, l’una coppa segua l’altra».

Il poeta di Mitilene considera il vino una medicina, un rimedio alle sventure, di fronte alle quali si trova conforto nell’ubriacarsi:

«Non dobbiamo abbandonare l’animo alle sventure:/ nessun vantaggio trarremo a tormentarci. / La migliore medicina, o Bicchi, / è procurarci il vino e ubriacarci».

Spesso nei versi di Alceo affiora una sensibilità per il paesaggio come in questo frammento (ripreso da Orazio nell’ode che inizia con la vista del Soratte coperto di neve: “Vides ut alta stet nive candidum”):

«Pioggia e tempesta dal cielo cadono / immense; le acque dei fiumi gelano./[...] Scaccia il freddo, suscita la fiamma / tempera il dolce vino con l’acqua / nel cratere, senza risparmio; / morbida lana avvolga le tempie».

Archiloco, poeta del VII sec. a. C., nato nell’isola di Paro, era di origine aristocratica. Combatté contro i Traci e tornato a Paro, durante uno scontro con gli abitanti fu ucciso. Fu molto ammirato dai suoi concittadini come è testimoniato da due iscrizioni in un santuario di Paro. A noi restano frammenti di Elegie e Giambi. Fu un soldato mercenario e nei suoi versi si presenta come uomo di guerra oltre che poeta.

In un frammento si fa riferimento alla guerra tra Paro e Taso, dove il poeta militò. Per scacciare la paura, prima della battaglia, esorta a portare la coppa sulla tolda della nave, ad aprire l’orcio panciuto e a spillare vino rosso, è meglio fare la guerra leggermente annebbiati dal vino che aspettare terrorizzati il momento dello scontro:

«Ma orsù, con la coppa tra banchi di rematori della rapida nave, / io su e giù vado; e tu togli / i tappi dagli orci capaci, e prendi vino rosso fino alla feccia./ Non potremmo essere sobri durante questa veglia di guardia».

Ancora il vino nei versi del poeta che ricorda i momenti della sua vita di soldato:

«Impastato è il mio pane nella lancia; / nella lancia è il mio vino della Tracia; /alla lancia io mi appoggio quando bevo».

«Sul banco della nave sta la mia focaccia impastata; /sul banco della nave sta il vino d’Ismaro; / disteso sul banco io bevo».

Con Senofane, poeta del VI sec. a. C., abbiamo la prima documentazione del ditirambo, antica forma di lirica corale greca sviluppatasi nell’ambito dei riti del culto di Dioniso, il dio del vino, e quindi è il nume tutelare dell’ebrezza e della perdita della ragione: toglieva le inibizioni, riconduceva gli uomini al loro stato primordiale e selvaggio, li faceva gridare, agitare, cadere nell’esaltazione orgiastica:

«Come folgorato dal vino nella mente so dare inizio / al ditirambo, il bel canto dedicato al dio Dioniso».

Il tema simposiale, cioè distendersi sul triclinio, mangiare, bere vino e conversare con gli amici e gli ospiti è ripreso in un altro frammento di Senofane:

«Il pavimento splende; mani, tazze pulite. / Uno ci pone in capo le ghirlande,/ un altro tende fiale di balsamo. Il cratere /troneggia pieno di serenità. /Altro vino promette di non tradirci mai; /è in serbo nei boccali, sa di fiore».

Prosegue con un consiglio:

«si deve bere quel tanto che ci faccia tornare a casa/ senza chi ti sorregga, sempre che tu non sia proprio vecchio».

Il poeta riporta in un frammento anche l’abitudine, dettata da una regola che vigeva nel simposio, di informarsi sul nome e sulla provenienza degli ospiti stranieri:

«Nella stagione invernale presso il fuoco, disteso su un morbido /, divano, quando si è sazi bevendo dolce vino / e sgranocchiando ceci, conviene dire tali cose: / “Chi sei tu tra gli uomini? Quanti anni hai? /Carissimo, quanti anni avevi e quando arrivò il Medo?»

Canta la gioia del simposio e il bere anche Anacreonte (570-485 a.C.) originario della ionica Teo, cittadina dell’Asia minore. Si rifugiò ad Abdera, in Tracia, quando la città cadde sotto il dominio dei persiani. Visse alla corte di vari tiranni greci, infine andò ad Atene chiamato da Ipparco che amava circondarsi di poeti e personaggi del mondo della cultura. Visse a lungo, la sua ricca produzione poetica fu raccolta dai grammatici in cinque libri di cui a noi. restano duecento frammenti. I suoi versi di particolare raffinatezza cantano soprattutto l’amore efebico, molti sono i ragazzi da lui amati, ma anche giovani ragazze, forse suonatrici di flauto, la gioia del banchetto, il rimpianto della giovinezza, il vino:

«Porta l’acqua, porta il vino, ragazzo / porta a noi corone / fiorite: fare a pugni / con Eros io non voglio».

In questa lotta contro l’eros rappresentato come un pugile dalla forza irresistibile, il vino invece dispone l’animo alla quiete per godere dei piaceri del banchetto, e porre sul capo ghirlande di fiori. La gioia del simposio non deve essere guastata parlando di guerra:

«Odio chi a tavola bevendo vino / da un colmo cratere racconti di zuffe o di guerre. / Amo chi mescolando gli splendidi doni di Afrodite / e delle Muse, si ricorda dell’ardente gioia di vivere».

Il tema del convito per Anacreonte è banchettare e bere vino in tranquillità e leggerezza, e come descritto già in Omero, si parla della mescolanza di due parti di acqua e una di vino, per non cadere subito in ebbrezza come fanno gli Sciiti della Beozia, tra gozzoviglie e chiasso:

«Portami un orcio, ragazzo che io tracanni d’un fiato, / mescolami dieci misure di acqua e cinque di vino, / perché di nuovo io celebri senza violenza Dioniso. / Ma orsù, non beviamo nuovamente tra urla e schiamazzi, / come fanno gli Sciiti ma sorseggiamo tra i bei canti».

Socrate, il filosofo ateniese del V sec. a. C. nel “Simposio” afferma:

«Anche a me piace molto che si beva, in quanto il vino, sopisce le cure degli animi ed alimenta l’allegria come l’olio la fiamma. Anche Platone, che pure nelle "Leggi" delinea uno Stato quanto mai austero, giustifica l’uso del vino proprio come rivelatore dei sentimenti più segreti ed oscuri».

Il vino è citato spesso dai tragici greci. Euripide, uno dei tre grandi tragediografi ateniesi del V sec. a. C. nelle “Baccanti”, - nome dato alle seguaci fanatiche del dio Dioniso, chiamato anche Bacco -, troviamo questo elogio del vino:

«Bacco, il figlio di Semele e Zeus, dispensò allo stesso modo / al ricco e al miserabile il pacificante piacere del vino. Dove non c’è vino non c’è amore; né alcun altro diletto hanno i mortali. Il vino dà nel sonno l’oblio dei mali quotidiani e non c’è altro farmaco per le fatiche umane».

Le conseguenze disastrose della Guerra del Peloponneso (431-404 a.C.) provocano l’impoverimento delle città greche. La Commedia antica riflette questo stato di cose ricorrendo talvolta all’evasione, proiettandosi in un luogo idealizzato, lontano dal mondo reale, quello che nella lingua italiana è usualmente definito “paese di Cuccagna”. Alcuni autori creano luoghi di “utopia gastronomica” per trasportare coloro che vivono in un momento di grande carestia in un mondo dove regna l’abbondanza di ogni bene, un mondo alla rovescia. come quello vagheggiato da Ferecrate, commediografo ateniese del V sec. a. C. Nella sua commedia “I Persiani” ambienta un paradiso gastronomico nella ricchissima Persia, la terra del Gran Re che nell’immaginario collettivo dei Greci si raffigura come un tradizionale luogo di abbondanza. Là i cibi, miracolosamente trasportati, arrivano a domicilio agli uomini che vivono nel benessere senza dover fare alcuna fatica per procurarseli:

«Che bisogno abbiamo ancora dei tuoi aratori o dei fabbricanti di gioghi o dei fabbricanti di falci o degli artigiani del bronzo o del seme o del palo di sostegno per la vite? […] Zeus facendo piovere giù sul tetto vino fumoso ne bagnerà ogni cosa, e dalle tegole ne scenderanno ruscelli».

Stratone di Sardi epigrammista greco del II sec. d. C., autore di molti epigrammi sull’amore omosessuale conservati nell’Antologia Palatina, in un suo componimento descrive il vino come un mare in cui i più infelici possono naufragare definitivamente. Invita un amico a bere e a porre ghirlande sul capo come si usava nei simposi prima che vino e fiori non saranno versati sui corpi morti:

«Bevi ora, e ama, Damocrate. Non sempre berrai /e non sempre andrai con i ragazzi. Mettiamoci ghirlande e unguenti, / prima che li portino sulle nostre tombe. Le mie ossa finché vivo / bevano vino: e morto, che le inondi anche il diluvio!»

Meleagro, poeta e filosofo (II-I secolo a. C.), fu anche autore di un centinaio di epigrammi giunti a noi grazie alla scoperta della Antologia Palatina, nei quali domina l’amore. Meleagro pubblicò una raccolta di epigrammi di vari poeti, la “Ghirlanda”, in cui ciascun autore era assimilato ad un fiore. Il vino nei due epigrammi qui citati è legato all’amore: può placarlo o condividerlo:

«Bevi, o amante infelice, e Bromio che dona l’oblio / acquieterà la fiamma d’amore per quel fanciullo. /Bevi, e attinta una coppa ricolma di vino / scaccia dal cuore l’odioso tormento».

«La coppa esulta di gioia perché ha toccato/la canora bocca di Zenofila, amica dell’amore. /Felice! Oh, se ora accostate le sue labbra alle mie /mi bevesse d’un fiato l’anima ch’è dentro di me».

Completiamo questa breve selezione di versi di poeti greci antichi con una frase del filoso greco Platone: «agli Dei non è mai stato concesso all’uomo niente di più eccellente e prezioso del vino».

Nota: nell’immagine cratere attico del V sec. a. C. Museo archeologico di Marsiglia

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