di Astolfo Lupia.

Un’ immagine, un manifesto in tedesco: in essa, assieme alle foto dei volti di diciannove giovani campeggia la scritta Anarchistiche Gewaltater e appena sotto, con un carattere appena più ridotto Bader /Meinhof Band. Leggendo le pagine successive sapremo che la traduzione del testo suona; “I violenti criminali della banda Bader Meinhof”. Sapremo anche che quel manifesto è appeso sui muri scrostati e sudici di un bunker nascosto, a Buenos Aires. Bunker presidiato da un enigmatico personaggio, tale Arcadio Lopez che in un tempo remoto, in quella che fu la sua prima vita, in Germania rispondeva al nome di Martin Bormann, segretario personale del Fuhrer. Tuttavia, apparentemente immemore dell’ingombrante passato, al momento in cui si trova davanti al manifesto non è più capace di decifrare le parole di quella lingua che fu sua. Oggi è custode di un luogo orrendo in cui vengono torturati i giovani che una volta usciti da lì si apprestano a diventare desaparecidos, a sparire inghiottiti dall’oceano. Sente le voci, pare; una cartella clinica lo attesta. Ma non è certo che quelle voci siano “di dentro”. E’ pur possibile che siano le urla di dolore dei giovani che a un passo da lui vengono torturati dagli aguzzini ispirati dal Piano di ricostruzione nazionale ordito dalla infame giunta militare. Urla straziate e strazianti che si confondono, in un osceno groviglio, con quelle della gente di Buenos Aires che festeggia la prima storica vittoria della Selezione ai mondiali del 1978. Ma Martin, o Arcadio, non partecipa né dell’una né dell’altra vicenda: la sua protesi col mondo è un televisore che rimanda le immagini della partita finale e che perde il segnale a causa dei cali di tensione che si verificano quando ai torturati è “offerta in dono la divina carica elettrica”. Alla fine muore; e, ci avverte pietoso il narratore, forse per la prima volta non sente più le voci. La RAF, che inaugura la narrazione, e che carsicamente percorre le pagine del libro ritorna non in un’immagine, ma in un serrato dialogo tra due personaggi alla fine del romanzo. Angelica e Michael, membri dell’organizzazione, si allenano in un poligono di tiro clandestino in un bosco vicino Dortmund. E’ il settembre del 1978, pochi mesi dopo la finale del mondiale argentino. Angelica è orgogliosa della sua performance da tiratrice, sei centri su sei, si sente un po’ come Clint Eastwood in Per un pugno di dollari, ed entrambi dell’ultimo colpo messo a segno dalla banda, il rapimento di Schleyer, capo della Confindustria tedesca, già membro delle SS in gioventù. Ma Angelica lascia cadere lì una frase che lascia interdetto il suo interlocutore: al posto dell’ex nazista meglio sarebbe stato rapire Paul Breitner. Proprio Breitner il “Maoista”, campione del mondo nel 74 e colonna del Bayern e del Real Madrid, Sì, proprio lui, il “finto rivoluzionario del cazzo”, quello che si atteggia a rivoluzionario, il “comunista da esposizione”. Angelica ne è certa, per affrancare il calcio dal giogo capitalista il messaggio migliore da dare sarebbe quella di rapire l’emblema del calciatore controrivoluzionario. Michael alla fine pare convinto dalle argomentazioni inoppugnabili della arcigna militante. Il dialogo è interrotto bruscamente dall’irruzione della polizia: una fitta e tragica sparatoria. Michael è colpito, sente che sta per morire e urla alla compagna di scappare, di mettersi in salvo almeno lei, ma prima di sparire per sempre le lascia l’ultima consegna: uccidi Paul Breitner. Angelica sfugge alla cattura, ma nel tempo a venire non riesce ad uccidere Breitner, naturalmente. Tornerà, nel corso della narrazione, con un nuovo nome. E assieme a lei tornerà M. , il membro delle forze speciali presente al blitz di Dortmund, con una nuova identità e un ruolo cruciale nelle vicende che verranno narrate. E cruciale è più in generale il ruolo dei personaggi di finzione: M. , Angelica/Roberta, Arcadio/Martin, assieme a tanti altri il cui ruolo nell’economia del racconto appare minore. Il ricorso alle strategie proprie della narrazione, alla fiction, alle tecniche e retoriche relative permette all’autore di strutturare un discorso di senso compiuto attorno al mondo del calcio. Il calcio inteso non nella dimensione di accadimento sportivo/agonistico con le sue peculiarità e regole, la sua storia, i suoi personaggi più o meno interessanti, ma come fatto politico. Meglio, il calcio come dispositivo messo in atto dal potere per perpetuare se stesso; quel calcio che, nelle parole dell’autore “è esso stesso potere”. Le tre parti in cui è diviso il libro mettono a nudo le relazioni strette non solo con il potere classicamente inteso, ma anche con l’economia – una vera e propria spy story quella che ricostruisce la trama del tentacolare sistema di influenze della FIFA, le lotte di potere tra personaggi che dietro il paravento della finzione alludono a uomini di potere fin troppo riconoscibili- e con i mass media, nell’ultima sezione, in cui i personaggi del blitz di Dortmund si ritrovano con le loro nuove identità a discutere dell’uccisione del calciatore colombiano Andrés Escobar in un ipermoderno centro commerciale londinese, luogo di culto in cui si consuma la massima liturgia contemporanea, quella dello shopping, con la carta di credito a fare le veci del corpo di Cristo. Il calcio, vera propria religione del nostro tempo, è quindi oggetto della lucida e puntuale decostruzione di tutta una numerosa sfilza di miti e di credenze a cui aderiscono in genere i tifosi, anche quelli più accorti e ideologicamente avvertiti. A differenza dei “mitopoietici” sudamericani Soriano e Galeano, acuti nell’analizzare i legami tra calcio e poteri ma anche pronti a lasciarsi incantare dalle sghembe piroette di Garrincha o dai funambolismi di Maradona, Pisapia ci propone uno scenario calcato da appariscenti quanto inconsistenti teatranti, fatti della stessa sostanza delle merci, inattingibili, da ultimo irreali. Fatto accorto dalla lezione di antichi e nuovissimi maestri del sospetto, egli può dire che il calcio, quello che dalla seconda metà del secolo diciannovesimo noi conosciamo come tale, è da sempre “creato ad immagine e somiglianza del capitale”, risponde intimamente alle sue logiche, alla infinita valorizzazione del valore. Il calcio è Paul Breitner che passa dalla adesione al comunismo di rito maoista alla pubblicità di un dopobarba; che non disdegna di indossare la camiseta merengue del Real Madrid, la squadra cara al franchismo più intransigente. Quel Breitner che invano Angelica pensa di dover rapire o ammazzare. In questo panorama mortifero, annichilente, si dà però alla fine una speranza; “l’anello che non tiene” di una maglia inesorabile. Un bambino esulta, Baggio ha appena segnato un gol; davanti a lui uno schermo televisivo spento; intorno a lui la “colonna infame” dei clienti in un enorme centro commerciale. La sua pura “gioia del piano d’immanenza del gioco del calcio” ha il potere di disperdere, di cancellare, come d’incanto, quella gente, quel luogo, gravidi, carichi di irrealtà.

Condividi