di Alberto Negri - Il Manifesto - 19.05.2022

Il destino dei curdi – e non solo il loro – si gioca al gran bazar delle armi, iniziato in queste ore tra Usa e Turchia per aggirare il veto di Erdogan all’ingresso nella Nato di Svezia e Finlandia che simpatizzano per il Pkk, da Ankara considerato organizzazione terroristica come l’Ypg, le brigate curde siriane di Kobane e del Rojava che nel 2014 condussero eroicamente la lotta al Califfato al posto nostro, un po’ come gli ucraini la stanno facendo oggi con la Russia occupante.
Ma tutto sembra dimenticato, come ci siamo scordati i 15mila morti curdi e le promesse mancate dell’Occidente di protezione dalla repressione turca: nell’autunno 2019 Trump ritirò le truppe dal confine siriano lasciando a Erdogan mano libera per il massacro. La forza di interposizione che sostituì allora gli americani era russa. Sono bastati 70 giorni per diventare tutti ucraini ma non 70 anni per diventare tutti curdi o palestinesi. L’amara battuta circola in Medio Oriente dove Turchia e Israele hanno sempre carta bianca.
La Turchia, membro Nato dal 1952, è di nuovo in guerra contro i curdi, con numerose vittime tra i civili, ma l’Alleanza atlantica fa finta di non saperlo. Il 17 aprile Ankara ha lanciato una nuova campagna militare nel Kurdistan iracheno e nel Rojava siriano. “Dobbiamo sradicare il Pkk”, è la motivazione di Erdogan che con questo slogan raccoglie consensi in patria oltre il suo partito. In realtà gli aerei e i droni curdi – gli stessi in azione in Ucraina contro i russi – colpiscono oltre ai curdi, civili compresi, anche la maggioranza yezida di Sinjar, che fu sottoposta ad atroci massacri e stupri dai jihadisti dell’Isis. È stata attaccata pure Kobane, roccaforte anti-califfato dove entrai nell’ottobre 2014, allora occupata per il 70% dai jihadisti appoggiati da Ankara, che in Erdogan hanno oggi a Idlib il loro referente principale.
Ma non erano questi curdi i combattenti che avevamo celebrato come “i nostri eroi”? Evidentemente non lo sono più. Anzi, noi a Erdogan diamo un solido aiuto bellico. Al punto che i raid turchi avvengono anche attraverso gli elicotteri italiani Mangusta (gli AgustaWestland AW129) prodotti in Turchia su licenza dell’italiana Leonardo.
Di tutto questo naturalmente il premier Draghi (che ieri ha ricevuto la leader finlandese Sanna Marin) non intende parlare come non parla che in maniera generica dell’invio di armi in Ucraina, su cui riferisce oggi in Parlamento davanti a deputati e senatori costretti a fare solo da spettatori al suo intervento.
Ma a Erdogan non basta un silenzio complice: per spazzare via i curdi, vuole altre armi. Il sultano – che ricatta l’Europa con i profughi e ha visto esplodere l’inflazione al 70% con la lira turca ai minimi su dollaro ed euro – sta alzando il prezzo del veto al nuovo allargamento della Nato. Ankara, oltre alla fine dell’appoggio ai curdi e dell’ospitalità a presunti membri del Pkk, chiede che venga tolto l’embargo alla vendita di armi deciso da Svezia e Finlandia dopo gli attacchi di Ankara contro i curdi siriani. A questo si aggiunge che la Svezia ha accolto esponenti dell’organizzazione di Fethullah Gulen (in esilio in Usa), considerato da Erdogan responsabile – insieme agli stessi americani – del golpe fallito del 14 luglio 2016.
Per rafforzare le sue pretese e armarsi ancora meglio il sultano turco ha appena spedito negli Stati uniti il suo grand vizir, il ministro degli Esteri Mevlut Cavusoglu, per discutere con il segretario di Stato Toni Blinken gli accordi previsti nel “Turkey-US Strategic Mechanism”, il formato diplomatico bilaterale stabilito nel 2021 da Biden ed Erdogan. I rapporti tra i due Paesi ondeggiano ma il punto più basso è stato toccato quando gli Usa hanno escluso la Turchia dal progetto del nuovo e costoso caccia F-35 come ritorsione all’acquisto da parte di Ankara del sistema anti-missile russo S-400.
In compenso adesso gli Usa sono in trattativa con Ankara per vendere 40 caccia F-16 e i kit di ammodernamento per la flotta turca che pattuglia il Mar Nero, il Mediterraneo orientale e il Nordafrica (attraverso la Libia), teatro contrastato dell’espansione della “Patria Blu” turca per spartirsi zone di influenza e giacimenti di gas offshore.
E non basta. La Turchia di Erdogan, dentro la Nato ma fuori dalla Ue, che come Israele non ha messo sanzioni a Mosca – in linea con quasi tutto il Medio Oriente e il Nordafrica – rimane un rebus geopolitico. Lo è dal lontano trattato di Parigi del 1856, quando l’impero ottomano si alleò contro la Russia nella guerra di Crimea con Francia, Regno Unito, Austria e Regno di Sardegna. Quell’accordo segnava la contrapposizione della Sublime Porta alla Russia ma confortava le aspirazioni di Istanbul per un’identità geopolitica europea, poi drammaticamente deluse dalla sconfitta della prima guerra mondiale, iniziata in alleanza con gli imperi centrali e con l’attacco ottomano alle basi russe sul Mar Nero.
Con la fine dell’impero, la repubblica ereditata da Ataturk cercava una protezione dalle rivendicazioni territoriali dell’Urss nell’adesione alla Nato che alle élite militari confermava l’identità occidentale del Paese. Finita la guerra fredda Ankara percepisce Mosca come un partner accettabile ma nell’ultimo decennio – con le crisi che riguardano Georgia, Crimea, Siria, Libia e infine Ucraina – la Russia torna essere una rivale, soprattutto con l’avanzata odierna di Putin nel Mar Nero.
Ma nonostante l’incompatibilità geopolitica tra Ankara e Mosca (che comunque fa assai comodo a Nato e Usa), Putin ed Erdogan intraprendono rapporti pragmatici, sia in Siria che in Libia. Nel 2016 per il fallito golpe Erdogan chiude la base Usa di Incirlik per una settimana e riceve il pieno appoggio di Mosca. Con il progressivo (ma relativo) ritiro Usa dal Medio Oriente, Erdogan sperimenta con Russia e Cina il multipolarismo. “Siamo in un mondo post occidentale”, proclama da tempo la diplomazia turca. Ma in un mondo che non è sicuro né pacificato e che ha fatto della Turchia un Paese ancora meno democratico e tollerante. Con la nostra complicità.

 

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