di Astolfo Lupia.

Al principio non fu il Verbo; quello venne dopo, per fortuna. L’incipit del romanzo vede Marcello, la voce narrante, giocare col padre, costruire una torre con le costruzioni. Marcello ha solo quattro anni; d’un tratto, senza che nulla lasci presagire quello che di tragico sta per accadere, il padre, in preda ad un repentino accesso d’ira, distrugge quella torre che assieme al figlio aveva appena assemblato, con un calcio, il “calcio di inizio”, che nessun arbitro ha fischiato. Marcello assiste ad uno spettacolo che non riesce a capire: urla, movimenti sconnessi e violenti, l’adulto che scende trafelato le scale, guadagna l’uscita, va via di casa. I vicini, allarmati o solo incuriositi dal trambusto, cercano anch’essi di capire: aggiungono solo confusione a confusione. Il bambino travolto dall’evento non può farsi un’idea di quel che è appena accaduto. Due pensieri si impongono con forza: quell’uomo, che dovrebbe proteggerlo dai pericoli del mondo, è esso stesso un pericolo per lui, anche estremo; e ancora, la confusa intuizione che forse a scatenare quell’inopinato putiferio potrebbe essere stato lui stesso: Marcello sente su di sé gravare il peso, insostenibile, della colpa. Il capitolo iniziale occupa in termini quantitativi una parte infinitesimale del testo: appena due pagine. E’ però in questo spazio ridottissimo che già in nuce si cela il senso, la direzione che prenderanno gli eventi futuri della vita del personaggio: la caduta nella “trappola del fuorigioco” e le strategie messe a punto di volta in volta per superare le prove ardue che tale condizione gli propone. Marcello, già a partire dal viaggio in Sicilia, che avviene a distanza di qualche anno dalla “ferita primaria”, comincia prima ad intuire, e poi a capire con sempre maggiore lucidità e consapevolezza che il padre è malato, che la sua è una malattia dello spirito, dell’anima. Che il suo male ha radici antiche, che ha origine nella sua stessa famiglia: la nonna, internata - memorabile il racconto della visita in manicomio assieme al genitore-, la zia, che si isola a lunghi tratti dal mondo e quasi non si alza dal letto, lo zio, soggetto ad accessi d’ira violenta e incontrollabile. Nel tempo, malgrado la crescente consapevolezza dei meccanismi che operano nella malattia paterna, si “ammalerà” anche lui, in una forma diversa, almeno in superficie, conforme allo spirito del tempo che gli tocca vivere, quella che viene detta dipendenza da sostanze. Contro avversari così ostici, intangibili eppure concretissimi negli effetti perversi che producono, quella di Marcello è una vita che è giocata “di rimessa” o “in ripartenza”: in risposta all’attacco del formidabile avversario, le strategie messe in atto dal protagonista tendono ad annullarne o almeno limitarne la pericolosità, con adeguate tattiche di difesa e qualche veloce contropiede per cercare gloria nella metà campo dell’avversario. Rovesciando il senso dell’espressione che dà il titolo al libro, forse il fuorigioco, più che una trappola finisce da ultimo per essere una vera e propria risorsa per il personaggio. Visto dal punto di vista di chi si difende esso rappresenta un efficace metodo di difesa, che valorizza, punta in maniera decisiva sull’intelligenza, sul pensiero, sulla capacità di ragionare e coordinare azioni e movimenti, riducendo al minimo indispensabile il ricorso alla forza fisica e al contrasto muscolare. Tale è l’approccio di chi, come Marcello, al di là e oltre la presa di coscienza dei meccanismi interni alla malattia, sua e del padre, punta per affrancarsi dalla propria condizione di sofferenza sulle armi della parola, della scrittura, sulla capacità di connettere organicamente in una narrazione compiuta e coerente, in cui nulla pare di troppo o gratuito, le vicende che lo vedono protagonista, rappresentandole con uno stile asciutto ed essenziale che aderisce ai fatti narrati e rende pregevole il testo. E poi, l’associazione automatica che si impone al solo sentire la parola fuorigioco è quella con la splendida Olanda del 74, e ancor prima del leggendario Ajax del rivoluzionario Cruyff, quella squadra in cui “il collettivo è tutto, ci si muove compatti a centrocampo tutti insieme”, una fantasia che si fa concreta: il comunismo del calcio totale. Di quel comunismo, di “quello che avrebbe potuto essere”, di cui Marcello nelle pagine finali misura e constata la drammatica scomparsa. A conclusione, sia concessa la menzione ad un episodio che pare farsi preferire tra i tanti notevoli presenti nel libro: la narrazione del pellegrinaggio dal santone/guaritore assieme al padre, alla zia ed al cugino, nel corso della permanenza in Sicilia (Capitolo II). Marcello ha dieci anni, è ancora un bambino; tuttavia nei limiti che l’età gli impone prende coscienza di due aspetti che connotano la propria famiglia di origine: da una parte un feroce anti- comunismo che trapassa in aperta fobia specifica nel caso del padre; dall’altro forme di devozione talmente eccessive e superstiziose da assumere le forme di vera e propria alienazione religiosa. In tale contesto si inquadra il viaggio organizzato dagli adulti per ottenere la guarigione dell’altro loro fratello, dopo che questi si è cacciato nei guai in seguito a uno dei suoi non infrequenti e violenti accessi d’ira. Dopo che i grandi hanno pazientemente atteso il proprio turno e espresso le loro richieste, tocca ai due bambini e Marcello, al momento di esprimere il proprio desiderio pensa bene di chiedere la vittoria della Fiorentina nella finale di Coppa Italia contro il Milan che si giocherà di lì a poco. Il sant’uomo manifesta tutto il suo stupore e forse indignazione per la stravagante richiesta, ma la risposta del ragazzo è straniante e magistrale: lo stemma del Milan è quello dell’”Avversario” per eccellenza, il Diavolo. Gli almanacchi riportano che, alla fine, contro ogni pronostico, la Viola riuscirà a vincere contro i “diavoli” rossoneri, al termine di una partita combattuta e spettacolare.

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