Il teorico della cospirazione rivoluzionaria.
di Nicole Bauer(*) - Jacobin Italia.
In Corsica, nel giugno del 1791, i furiosi abitanti della città di Bastia espulsero violentemente dalle loro coste un apostolo della rivoluzione. Il rivoluzionario aveva cercato di rifugiarsi dalla loro ira nascondendosi nella cantina di un vecchio edificio. Quest’uomo, Filippo Buonarroti, era un nobile fiorentino discendente dell’artista Michelangelo; era divenuto un fervente giacobino all’inizio della Rivoluzione francese ed era andato in Corsica per sostenere i nuovi principi della rivoluzione. Minacciato, dovette nascondersi. Ma fu presto trascinato fuori dal suo nascondiglio con una corda al collo e portato al molo senza il cappello e nemmeno le scarpe, i suoi aggressori lo costrinsero a imbarcarsi su una nave per Livorno, sulla costa toscana. Lì fu imprigionato dal Duca di Toscana, che non apprezzava le sue idee politiche. Buonarroti tornò infine in Corsica e poi in Francia, dove chiese la cittadinanza francese. Eppure non nutriva rancore verso gli abitanti di Bastia, attribuiva la sua sorte a una cospirazione.
Secondo Buonarroti e i suoi compagni giacobini, eventuali ostacoli o ritardi nella liberazione del popolo erano da imputare ai cospiratori e ai controrivoluzionari che operavano nell’ombra. Eppure più tardi nella sua carriera Buonarroti sarebbe diventato un famoso cospiratore e avrebbe utilizzato volentieri la segretezza a suo vantaggio. Buonarroti, dopo tutto, è famoso soprattutto per il suo coinvolgimento nella cospirazione con il rivoluzionario francese Gracco Babeuf per rovesciare il Direttorio, il governo che seguì la caduta di Maximilien Robespierre nel 1794. La Congiura di Babeuf, o Congiura degli Uguali, fu un tentativo di stabilire uno stato protocomunista e democratico.
I loro sforzi culminarono nella sconfitta e nella repressione, e Babeuf fu ghigliottinato nel 1797. Ma Buonarroti visse fino al diciannovesimo secolo, quando gli attivisti di sinistra che affrontavano governi inospitali ricorsero sempre più spesso alla clandestinità. La storia della vita di Buonarroti è quindi un esempio dell’atteggiamento mutevole e complicato della sinistra nei confronti della segretezza nel diciottesimo e diciannovesimo secolo. Rimanendo un irriducibile giacobino anche nel nuovo secolo, Buonarroti divenne anche il ponte verso il nuovo movimento operaio. Vivendo fino al 1830, ispirò i Carbonari, le reti segrete di rivoluzionari in Italia, e socialisti radicali come Auguste Blanqui in Francia.
Democrazia e trasparenza
Babeuf e Buonarroti, come altri giacobini, credevano che lo Stato dovesse essere trasparente nei confronti del cittadino. Credevano che la rivoluzione fosse il momento giusto per rompere con il potere segreto delle élite e creare un sistema democratico in cui il governo fosse pienamente responsabile e visibile. Consideravano anche il Direttorio, istituito nel 1795, come corrotto, repressivo e ipocrita, perché limitava la libertà di parola e controllava l’attività politica dei giacobini. Per Buonarroti la segretezza era diventata una necessità in un mondo decadente; le condizioni non erano ancora mature per una trasparenza totale. Il Direttorio, nel frattempo, aveva sfruttato appieno il nuovo atteggiamento aperto nei confronti della trasparenza, conducendo allo stesso tempo una sorveglianza segreta sui cospiratori.
Buonarroti incontrò Babeuf solo dopo la caduta di Robespierre, ma era stato attivo in politica durante tutta la rivoluzione. Fece domanda al governo francese per la cittadinanza e gli fu concessa nel 1793. I suoi amici a Parigi furono certamente comprensivi quando seppero dei problemi che aveva avuto in precedenza a Bastia, da dove era stato mandato a subire la «tirannia toscana» (Nei suoi appunti personali, Buonarroti annotava giudizi laconici e pieni di sdegno sul resto d’Italia e della Spagna: «Venezia: aristocrazia. Piemonte: nobiltà insolente. Toscana… religiosa, nobili irritanti, spionaggio, tasse, polizia. Spagna: inquisizione»).
Quando gli fu concessa la cittadinanza francese, rinunciò alla sua identità aristocratica e a qualsiasi titolo o ricchezza che avrebbe potuto ereditare, e si mise a nudo davanti ai suoi compagni giacobini, affermando: «È necessario che i miei compagni patrioti mi conoscano completamente. Dichiaro a tutta la Repubblica che sono nato nobile di Firenze in Toscana, dove, per sventura di quel bel paese, esiste ancora la nobiltà… Per quanto riguarda i miei sentimenti patriottici, credo di essermi già fatto conoscere». Divenne il fratello minore di Robespierre, un caro amico, e rimase un fervente giacobino per tutti gli anni Novanta del Settecento.
Dopo la caduta di Robespierre, sia Buonarroti che Babeuf furono imprigionati dal Direttorio, il primo per le sue chiare simpatie giacobine, e il secondo per essere stato troppo esplicito sul suo giornale nelle sue critiche al nuovo governo. Furono presto rilasciati e si unirono a sacche separate e isolate di radicali scontenti, sparse in tutta Parigi e persino in Francia, ma inizialmente non comunicavano tra loro. Alla fine, però, coloro che avevano tendenze democratiche – o chiunque a sinistra fosse rimasto deluso dal Direttorio – iniziarono a incontrarsi regolarmente in quello che chiamavano il Club del Pantheon. I registri mostrano che arrivarono a 1.500 iscritti, o addirittura a duemila membri prima di essere chiusi dal governo nel 1796. Successivamente, si chiamarono Comitato per l’insurrezione e gli Uguali, iniziarono a costruire una rete clandestina e mantennero persino segreta la loro identità persino ai loro stessi agenti.
Il Direttorio era composto principalmente da moderati che cercavano di sostenere una repubblica che manteneva la legge e l’ordine e portava tranquillità alle classi dei proprietari terrieri. In misura crescente, gli Uguali erano stufi di uno Stato che non espandeva l’elettorato, ma piuttosto lo riduceva, e sembravano più interessati a proteggere il benessere dei proprietari terrieri che dei lavoratori come i sanculotti parigini. Questi ultimi percepivano che il loro ritrovato potere politico aveva perso slancio, ma la loro era una frustrazione. Lottarono anche per stabilire quanta trasparenza avrebbero dovuto concedersi, i loro metodi non erano del tutto clandestini. Appesero il loro manifesto in tutta Parigi e Babeuf fece distribuire dai suoi agenti opuscoli ai lavoratori nelle prime ore del mattino o al tramonto, quando andavano e tornavano dal lavoro. In particolare, le gesta della moglie di Babeuf, Marie-Anne, e di un’altra dei loro membri, una sarta di nome Sophie Lapierre, attirarono l’attenzione della polizia, forse perché erano donne. La polizia individuò più di una volta Lapierre mentre cantava canzoni babeuviste in un cabaret. In un altro caso, lei o un’altra donna salirono su una sedia nei giardini delle Tuileries e lessero ad alta voce il Manifesto degli Uguali davanti a una folla, ma poi scapparono. In un’occasione, la polizia segnalò che «anarchici armati di bastoni» imperversavano alle Tuileries condotti da Marie-Anne Babeuf.
In un opuscolo intitolato Una parola ai patrioti, Babeuf scrisse: «Sarebbe una follia nascondere… le nostre disposizioni ostili con il pretesto di impedire loro di stare in guardia… Ricorrono agli stratagemmi… [e] gli sciocchi faziosi diranno che forse sarebbe meglio agire nell’ombra. Ma dico… non è una sorpresa che desideriamo sconfiggerli; è in un modo più degno del popolo: una forza aperta». Buonarroti era d’accordo, ma sembrò pensare che le circostanze rendessero temporaneamente necessaria la segretezza, dicendo: «Non vogliamo dissimulare o nasconderci se non in una nazione marcia… e in una nazione dove il diritto alla proprietà ha messo radici quasi inestricabili nel cuore e nella mente dei cittadini, così come nelle istituzioni e nelle leggi».
In questo passaggio Buonarroti giustificava la segretezza come mezzo per combattere un regime e una società degenerati. In un affascinante sviluppo della loro ideologia, gli Uguali identificarono anche la dissimulazione con la proprietà. Associavano la proprietà alla conoscenza; in un mondo egualitario, tutti avevano accesso all’istruzione e la conoscenza era condivisa apertamente. La dissimulazione significava per loro un occultamento o un accaparramento illegittimo e ingiusto di ciò che doveva appartenere a tutti. Credevano che la condivisione sia della terra che della conoscenza garantisse equamente una società giusta. Come comunisti o protocomunisti a seconda di dove li si colloca nel lignaggio marxista (Marx ed Engels chiamarono Babeuf il «primo comunista moderno»), gli Uguali continuarono ad apprezzare la trasparenza ma la consideravano pienamente possibile solo nel mondo utopico che immaginavano, fatto di proprietà comune, democrazia diretta e di uno Stato responsabile nei confronti dei cittadini.
Alla sbarra
Le leggi restrittive del nuovo governo dopo il Terrore di fatto avevano messo all’angolo Babeuf e i suoi compagni. Con il nuovo regolamento del Direttorio del 1795 che decretava che le società popolari dovevano fornire un elenco dei loro membri e stabiliva che non potevano corrispondere come entità collettive, Babeuf e gli altri del Club del Pantheon iniziarono a sentirsi sempre più relegati alla clandestinità. Cominciò a pubblicare con maggiore frequenza opuscoli clandestini e cominciò perfino a parlare in senso positivo di «fazione», parola vile così spesso diffamata dai rivoluzionari. Disse: «Il nostro partito è forte. Non nascondo che ne abbiamo uno».
Babeuf e Buonarroti iniziarono a organizzare una rete segreta ma ben organizzata e ben strutturata intraprendendo anche una campagna di proselitismo, incontrando altre associazioni popolari (o ciò che restava di esse), e spesso girando porta a porta per Parigi. Ben presto il governo eliminò tutti i democratici radicali rimasti in carica, molti dei quali si erano uniti a Babeuf. L’epurazione convinse anche Babeuf che la segretezza era una delle poche opzioni rimaste poiché le critiche aperte al governo portavano così spesso all’arresto o alla perdita della propria posizione. E così, gli Uguali si organizzarono con alacrità e abbracciarono un modus operandi cospiratorio. Ma nonostante la massima segretezza adottata dagli Uguali e i frequenti cambi di nascondiglio di Babeuf e Buonarroti, alla fine la polizia riuscì a scoprire il loro covo.
Il processo agli Uguali fu un evento molto pubblicizzato. È noto non solo per essere stato l’ultimo luogo in cui Babeuf ha sostenuto le sue idee, ma anche per essere stato il primo processo nella storia con una trascrizione completa e letterale. Il Direttorio cercò di rendere ogni aspetto della procedura il più trasparente e legittimo possibile, dipingendo gli Uguali come pericolosi anarchici che tentavano di distruggere la legge e l’ordine. Il processo si svolse in pubblico, le trascrizioni vennero rese pubbliche e resoconti quotidiani apparvero sul giornale gestito dal governo.
Gli imputati sostenevano che il Direttorio era illegittimo e che non avevano fatto nulla di male cospirando contro di esso. Come hanno sostenuto molti storici, il fatto che ci fosse stata la Rivoluzione francese aveva reso sfumato il confine tra ribellione giustificata e cospirazione illegale. Durante il processo, sostennero che «non può esserci alcuna cospirazione sotto un governo illegale e tirannico». Credevano che «cospirare» contro un regime dispotico fosse un dovere e un diritto del popolo, proprio come la Rivoluzione francese era stata una rivolta contro la tirannia. Dopotutto, sostenevano, «il più grande errore di tutta la politica è senza dubbio l’idea che l’essenza della cospirazione consista nell’intento di rovesciare i governi costituiti, non importa quanto corrotti e vili… Da questo punto di vista la Rivoluzione del 14 luglio 1789, che rovesciò il governo costituito, fu un’associazione a delinquere».
Nonostante la dimostrazione di trasparenza, lo Stato si servì di pessimi testimoni, ma comunque condannò gli Uguali. Lo Stato chiamò tre testimoni, due dei quali molto inaffidabili; uno sosteneva di essere stato pagato per la sua testimonianza e un altro credeva di essere posseduto dai demoni. Babeuf venne ghigliottinato e Buonarroti trascorse gli anni successivi in varie prigioni. Quando Napoleone salì al potere, liberò Buonarroti, ma Buonarroti lo disprezzava per il suo autoritarismo. Durante gli anni della Restaurazione borbonica, Buonarroti visse in esilio, tornò in Francia solo dopo la Rivoluzione di luglio del 1830. Negli anni trascorsi all’estero e in Francia, Buonarroti pubblicò diverse opere, tra cui una sulla Congiura di Babeuf e una sulle società segrete, e continuò a sostenere la mobilitazione clandestina per la rivoluzione.
Dopo il suo ritorno in Francia, Buonarroti dovette dimostrare a vari funzionari la sua cittadinanza francese, brandendo l’antico documento di naturalizzazione consegnato dalla Convenzione nel 1793. Molti ricordavano ancora che era stato processato insieme a Babeuf, sebbene Buonarroti si fosse dichiarato non colpevole. Aveva sostenuto che cospirare contro lo Stato poteva essere legittimo ed era in effetti un suo dovere patriottico. Sebbene avesse abbracciato la segretezza al servizio della sinistra radicale, quando morì venne salutato in forma pubblica con un corteo e lo sfarzo di un funerale di Stato. Sebbene il nuovo governo fosse diffidente nei confronti dei radicali come Buonarroti, era così ben ricordato e popolare tra la nuova generazione di attivisti che centinaia di persone parteciparono al suo funerale a Parigi nel 1837.
(*)Nicole Bauer insegna storia europea all’Università di Tulsa. Il suo ultimo libro è Tracing the Shadow of Secrecy and Government Transparency in Eighteenth-Century France (PalgraveMacMillan, 2022). Questo articolo è uscito su JacobinMag. La traduzione è a cura della redazione.
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