Sulla crisi italiana: qualche spunto di riflessione.
di Fausto Gentili.
Un aspetto decisamente sgradevole, nel perdurante declino della società italiana, è il dilagare di comportamenti ottusamente egoistici, come se l’unico faro che illumina il cammino di tanti fosse il calcolo, o piuttosto la percezione istintiva, quasi un riflesso spontaneo, del proprio tornaconto immediato, a prescindere da tutto il resto: gli altri, lo spazio pubblico, il bene comune, il proprio stesso futuro. A volte, specie in aspetti minimalistici della vita quotidiana - sono sempre di meno, ad esempio, gli automobilisti che, prima di svoltare, mettono la freccia - non c’è nemmeno un proprio tornaconto, ma semplicemente l’ostentato disimpegno verso l’interesse altrui: sto per svoltare, so che questa informazione potrebbe esserti utile, ma non credo che tu te la sia guadagnata e non vedo perché dovrei fornirtela. E’ una “fuga dal sociale” per rappresentare la quale Ch. Lash usò con efficacia la categoria del Narcisismo, salvo il fatto che non si capisce bene perché tanti - invece che della propria bellezza, a cui anzi guardano con sospetto, come ad una debolezza che mette a rischio la possibilità di successo - finiscano per innamorarsi della propria bruttezza interiore, ed esibirla come un trofeo.
Verrebbe allora da usare uno dei tanti derivati della parola “anarchia”, se non fosse che quello era (è) un grande ideale universalistico e umanitario, mentre qui siamo a parlare di accaparramento, di auto in terza fila, di evasione fiscale, di concessioni urbanistiche o autostradali, di carriere costruite truccando le carte, calpestando i diritti altrui e tradendo se stessi, di “amici a quattro zampe” (adesso si chiamano così) lasciati liberi di elargire le loro amichevoli deiezioni ai marciapiede di ogni città, nessuna esclusa. Col che non voglio negare, e nemmeno sottovalutare, la diffusa presenza di isole di socialità che, per così dire, nuotano contro corrente e praticano modelli di vita e di comportamento più ragionevoli, più consapevoli, più evoluti. Ma appunto di isole si tratta: numerose, spesso ben strutturate, a volte disponibili a pensarsi come arcipelaghi e darsi reciproco sostegno. E dunque preziose, ma non in grado - oggi come oggi - di invertire la corrente di fondo che attraversa la società nazionale e ne compromette il futuro.
Con la conseguenza che la vita di tutti - compresi quelli non pagano le tasse, e poi si lamentano della pubblica amministrazione, o buttano le cartacce sulla pubblica via, e poi in quella stessa via vanno a passeggiare - ne risulta impoverita, imbruttita, inutilmente affaticata. Come se ad assediarla non ci fossero già i grandi problemi del presente: la guerra, l’epidemia, la crisi ambientale, la sconfitta storica delle classi lavoratrici, la vergogna di una disuguaglianza che solo qualche decennio fa avremmo giudicato intollerabile. Come se i mali più grandi di noi, quelli prodotti dalla storia non bastassero, e ad essi bisognasse portare il proprio contributo soggettivo, la propria fascina - piccola o grande che sia - per alimentare il fuoco in cui si dissolve il legame sociale e bruciano le speranze del Novecento plasticamente rappresentate nel grande affresco della Costituzione.
E certo si può dire che non c’è niente di nuovo sotto il sole, che già da tempo Darwin (la selezione naturale) e Marx (la natura irrimediabilmente anarchica del capitalismo) e Nietzsche (umano, troppo umano) e Freud (il disagio della civiltà) ci hanno spiegato che siamo fatti così, e così è fatto il contesto storico entro cui progettiamo oppure trasciniamo le nostre vite. Ma resta il fatto che chi torna da un Erasmus o anche solo da una vacanza ci dice che in Francia, in Germania, in Olanda, in Spagna non è esattamente così, e noi stessi sappiamo che trenta o quarant’anni fa neanche in Italia era così. E dunque ci sarà una specificità della crisi italiana; ci saranno, accanto alle ragioni antropologiche (la natura umana) e a quelle genericamente sistemiche (l’Occidente nell’era del capitalismo senza ostacoli), dei fattori specifici: nazionali, storici, congiunturali. E ci vorrebbe qualcuno che ci aiutasse a capirli, a metterli in fila, a farcene, diciamo così, una ragione.
In generale, e un po’ all’ingrosso, credo che i “maestri del sospetto” dell’Ottocento, i quattro giganti citati poc’anzi, abbiamo ragione: noi esseri umani siamo più o meno quella cosa lì, e il mondo funziona tuttora, più o meno, in quel modo lì. Credo anche che “l’amor di sé” di cui parlava un altro grande già quattro secoli fa, cioè una sorta di innato, prezioso egoismo, sia davvero il motore di quasi tutti i comportamenti umani: fa sì che ci tiriamo indietro prima di sporgerci troppo dalla finestra o che inventiamo la ruota se dobbiamo trasportare dei pesi (e quindi va incoraggiato), ma anche che siamo soddisfatti quando i nostri post ricevono dei like, quando un nostro concorrente subisce un danno o quando riusciamo a mangiare senza pagare pedaggio la merenda del nostro compagno di banco (e quindi va contenuto). E dunque il legame sociale è una costruzione, qualcosa che accompagna, contiene e indirizza il naturale individualismo dei singoli. Col rischio permanente di soffocarlo, privando i singoli della libertà e la società di gigantesche risorse creative; oppure di lasciare campo libero a tutti gli appetiti, vale a dire alla guerra di tutti contro tutti. Il legame sociale, insomma, è stato costruito nella storia in vista di certi vantaggi, (consapevoli o impliciti, dei singoli e della specie), e noi lo ereditiamo in circostanze anch’esse storiche: un conto è nascere in Italia nel 1991, come mia figlia, altra cosa esservi nati nel 1950, come me, altra ancora nel 1929, come mia madre. Una differenza che salta agli occhi, ma che merita, forse, di essere guardata un po’ più da vicino. Per capire meglio che cosa è venuto a mancare, e perché lo spirito pubblico è così depresso.
Per semplificarci un po’ il compito, possiamo guardare a tre principali fattori - molto diversi, ed anzi in genere in conflitto tra loro - tra quelli che hanno storicamente disciplinato i comportamenti individuali: il primo è la religione, il secondo il potere, il terzo l’articolazione sociale. Nel primo caso la disciplina, a prima vista “spontanea”, interiorizza norme di comportamento tanto più autorevoli in quanto attribuite ad una Trascendenza onnipotente, così che a trasgredire non solo si rischia il collo, ma si fa peccato. Senza farla troppo lunga, questo è l’approccio di tutto il Medioevo. Una variante laica, ripetutamente auspicata ma mai realizzata in Italia, è l’affermazione di una sorta di “religione civile”: la subordinazione non tanto a un Dio quanto ad un idealità astratta - in Francia la Repubblica, in Italia piuttosto la Patria - attraverso la quale si concretizza la nostra relazione con gli altri. Ne discende, da Mazzini e De Amicis a Giustizia e LIbertà, fino a certe uscite di Azeglio Ciampi, tutta la tematica della relazione tra libertà, appartenenza, diritti e doveri.
La seconda potenza regolatrice delle pulsioni individualistiche (molto presente nell’antichità, in secondo piano nel Medioevo, di nuovo in auge a partire dalla nascita degli Stati assoluti tra Cinque e Seicento) è stata, naturalmente, il Potere. Con molte varianti - il potere del sovrano o quello della legge, quello di uno, di pochi o dei molti- ma un tratto comune: la norma va rispettata perché, la sua fonte è: 1) legittima; 2) in grado di usare la forza per farla rispettare (va da sé che questo secondo requisito è in realtà il fondamento del primo, come ha spiegato N. Machiavelli una volta per tutte). In più occasioni questa “seconda” potenza è entrata in conflitto con la “prima”, ma più spesso hanno trovato il modo di convivere, sia pure continuando a competere: erano i papi, in fondo, a incoronare gli imperatori, e gli esempi, dalla Restaurazione del 1815 ai Patti Lateranensi del 1929- potrebbero moltiplicarsi. (Lo stesso Aramis, in Vent’anni dopo, si barcamena tra la fedeltà al re e il fatto di essere diventato nel frattempo il capo segreto dei Gesuiti).
Del terzo fattore (il legame sociale che si costituisce non direttamente con l’intera comunità nazionale, ma in relazione alle diverse comunità di interesse o di valori che la attraversano e la innervano, anche in conflitto tra loro, così che l’appartenenza ad una patria comune è per dir così “seconda” o derivata, mentre l’appartenenza “prima”, pienamente vissuta, quella che dà identità e per cui si fanno sacrifici, è l’appartenenza al proprio ceto, alla propria classe o - il che non è molto diverso- al proprio partito) si sono largamente occupate la filosofia tedesca nell’Ottocento e la sociologia americana nel Novecento. Ma senza scomodare la filosofia è ben presente nella storia dei Comuni italiani del Medioevo o in quella più recente della cosiddetta Prima repubblica, quando si era prima comunisti (o socialisti, democristiani, repubblicani, neofascisti...) e poi italiani, o meglio: pienamente italiani proprio perché l’appartenenza ad una patria comune era mediata, filtrata e in definitiva resa realistica e praticabile attraverso l’adesione ad un progetto di società che si incarnava nel partito cui, per le ragioni più diverse, si era scelto di aderire.
Tornando alle date di cui sopra, mi sembra evidente che nel 1929 la combinazione dei tre fattori era fortemente sbilanciata a favore del secondo (la onnipresenza, anche coercitiva, del Potere), e sostenuta - quanto al primo - dalla concordia discors della religione cattolica e della retorica dell’ educazione popolare fascista, mentre poco o nulla vi contribuiva - nonostante le chiacchiere sul sistema corporativo- il pluralismo degli interessi, e meno ancora quello, proibito ex lege, delle idee. Decisamente migliore la situazione nel 1950: dissolta dalla guerra la Grande Menzogna Mussoliniana e approdati per forza di tragedia ad una più realistica visione di sé, gli italiani poterono sperimentare un modello di coesistenza reciproca che era anche un progetto di futuro, garantito dall’equilibrio elastico dei tre citati fattori di coesione: un repertorio di valori tradizionali, spesso illiberali ma condivisi da una larga maggioranza di cittadini, avviato ad un lento declino che sarà poi certificato dai due referendum sul divorzio (1974) e sull’aborto (1981); uno Stato largamente imperfetto - e pesantemente inquinato da tutto ciò che via via siamo venuti a sapere - ma in qualche modo in grado di far valere, pur tra mille errori ed ingiustizie, una sua riconosciuta autorità; ma soprattutto una molteplicità di soggettività organizzate, comunità non solo politiche ma soprattutto politiche: ciascuna con la sua ispirazione ideale, il suo modus operandi, la sua disciplina interna, il suo stile. Già alla fine del secolo, però (e siamo alla terza data) le cose erano cambiate, forse in modo irreversibile: alla tardiva secolarizzazione della società non si era accompagnata l’affermazione di un linguaggio comune né di una condivisa architettura di valori; lo Stato era tornato ad essere, per i più, una vacca da mungere o un cane da guardia da ammansire; le grandi forze organizzate avevano finito, ognuna per diversa via, per togliersi o essere tolte di mezzo, aprendo praterie alle incursioni di demagoghi, opportunisti e paraculi di ogni età, genere e specie. Per una imprevedibile e sfortunata congiuntura di casi, i tre fattori di coesione sociale erano venuti meno contemporaneamente, e proprio nel momento in cui massimo sarebbe stato il bisogno di affrontare le sfide del presente (la fine della guerra fredda, la globalizzazione, le nuove tecnologie, il rinnovato strapotere del capitale, l’emergenza climatica) alla luce di una idea magari minima ma condivisa del bene comune e potendo contare sulla forza innovativa rappresentata del conflitto organizzato politico e sociale.
Quello che ci è toccato, invece, è il groviglio di frustrazioni private e pubbliche inadempienze di cui sono una testimonianza minore anche la crisi/noncrisi di questi giorni, nonché la servile trepidazione con cui la grande stampa dipendente si sforza di nasconderne il senso.
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