di Maria Pellegrini

Siamo soliti immaginare i fantasmi in vecchi castelli della brughiera inglese secondo la descrizione dei racconti ottocenteschi, invece sono già presenti nella tradizione popolare e letteraria di tutte le antiche civiltà. La mole di narrazioni, poesie, notizie, aneddoti su fantasmi e apparizioni di defunti nei sogni dei vivi, è vastissima perciò circoscriviamo l’argomento ad alcuni esempi nell’ambito della letteratura greca e latina.

Fin dai tempi di Omero, i morti che non hanno ricevuto sepoltura o quelli vittime di morte violenta sono condannati a vagare per il mondo come fantasmi. Nell’“Iliade” lo spettro di Patroclo appare all’amico Achille rimproverandolo di non avergli dato onori funebri e chiedendo di essere sepolto:

«Tu dormi, Achille, e ti dimentichi di me. Non ti scordavi di me quando ero vivo, ma ora che sono morto ti scordi di me. Sono disteso fuori dal portale dell’Ade e le altre ombre non mi permettono di unirmi a loro oltre il fiume. Dammi sepoltura al più presto, in modo che anch’io possa passare. Quando mi avrai onorato col fuoco, non tornerò più dall’Ade. Mi ha ghermito la morte odiosa e non staremo mai più insieme, appartandoci dai nostri compagni, a discutere piani e progetti, come quello di conquistare Troia da soli. Presto la morte afferrerà anche te, per mano di un dio e di un troiano».

I fantasmi che appaiono ai vivi possono avere intenzioni ostili e tornare per vendicarsi, altre volte c’è un legame d’amore che non s’interrompe con la morte e li spinge a tornare dalla persona amata, come Laodamia che implora gli dei di farla tornare sulla terra per una notte e incontrare il marito Protesilao, il primo guerriero acheo morto nella guerra di Troia.

Ci sono spettri che appaiono in sogno per presagire sciagure come il fantasma apparso a Bruto mentre questi si accinge a affrontare Antonio e Ottaviano nello scontro decisivo tra gli uccisori di Cesare e il suo giovane nipote alleato con Antonio. Narra Plutarco nella “Vita di Cesare”:

«Bruto riposava come al solito nella sua tenda, non dormiva e preoccupato pensava al futuro. Scrutando attraverso la luce fioca della lampada vede un’apparizione spaventosa: un uomo di grandezza innaturale e dall’espressione corrucciata. Sulle prime ne è atterrito, poi nel vedere che l’altro non fa e non dice nulla, ma gli rimane silenzioso accanto, gli domanda chi sia. Il fantasma risponde: “Io sono il tuo cattivo Genio, o Bruto. Mi vedrai a Filippi”. “Va bene” esclama coraggiosamente Bruto. […] La notte che precede il giorno dello scontro a Filippi contro Antonio e Ottaviano, il fantasma gli appare di nuovo e, benché non dica nulla, Bruto capisce che la sua sorte è segnata. Si getta senza riguardo nel pericolo, ma non cade combattendo. Quando i suoi sono sconfitti, si ritira su uno sperone di roccia scoscesa e là si uccide, puntandosi la spada contro il petto nudo, mentre - così dicono -un amico l’aiuta a vibrare il colpo con forza».

Nel racconto dell’ultima notte di Troia, descritta da Virgilio nell’“Eneide”, Enea fugge dalla città in fiamme portando con sé le immagini dei Penati, tenendo il figlioletto per mano e il vecchio padre sulle spalle, mentre la sposa Creusa lo segue. Quando ha raggiunto il luogo del raduno di tutti i profughi, il tempio di Cerere fuori dalle mura della città, si accorge che la moglie Creusa è scomparsa. Allora torna indietro, ripercorre la città in preda alle fiamme, non si trattiene neppure dal gridare più e più volte il nome della moglie, ma seguiamo il suo racconto attraverso le parole del poeta:

«A me che la cercavo e mi precipitavo senza fine fra le case della città, appare davanti agli occhi l’ombra spettrale dell’infelice Creusa, di dimensioni più grandi di quella che conoscevo. Rimango impietrito, i capelli si rizzano e la voce rimane in gola. Allora lei comincia a parlare così, per alleggerire con le parole l’angoscia: “Perché lasciarsi andare a un dolore così insano, dolce marito? Questo accade non senza il volere degli dei; e non è dato che tu porti lontano da qui Creusa come compagna, non lo permette il re dell’alto Olimpo. Ti attendono lunghi anni di esilio, dovrai percorrere una vasta distesa di mare, e infine giungerai alla terra Occidentale, dove l’etrusco Tevere scorre con lento corso fra campi ricchi di uomini. Là sono preparati per te successi, un regno e una moglie di stirpe regale. Dunque: scaccia le lacrime per l’amata Creusa […]. Addio, mantieni l’amore per il figlio generato insieme”. Dette queste parole, mentre io piango e desidero dire molte cose, mi lascia e svanisce leggera nell’aria. Tre volte allora tento di abbracciarla; tre volte l’immagine abbracciata invano sfugge alle mie mani, simile a venti leggeri e somigliantissima a un sogno alato».

In età neroniana Lucano nella “Farsaglia” (poema sulla guerra civile tra Cesare e Pompeo, terminata con la sconfitta di quest’ultimo a Farsalo, da cui il titolo Farsaglia) narra che a Pompeo, in fuga dall’Italia, appare in sogno l’ombra di Giulia, figlia di Cesare e sua prima moglie. Simile a una Furia, l’immagine della defunta giura di perseguitarlo per vendicarsi del suo tradimento, infatti ha sposato mentre le sue ceneri erano ancora calde un’altra donna, Cornelia. È evidente il rovesciamento del precedente virgiliano: anche a Enea fuggiasco da Troia, è apparsa la moglie Creusa appena morta, la quale però gli assicura eterna benevolenza e protezione. Giulia invece prevede per Pompeo sconfitte e tante morti. Quanto a lei promette di tornare a turbare tutte le notti dei due sposi:

«Cesare occupi i vostri giorni, e Giulia le notti. L’oblio della sponda del fiume Lete, o Pompeo, non mi ha reso immemore di te, i sovrani del regno del silenzio mi hanno concesso di seguirti. Verrò in mezzo alle schiere mentre guiderai le battaglie; mai o Pompeo la mia ombra ti permetterà di non essere il genero di Cesare. Invano tenterai di infrangere con il ferro i tuoi impegni, la guerra civile ti farà mio».

Così dice, prima che l’ombra svanisca dalle braccia di Pompeo tremante.

Molto diffuso nel mondo antico raccontare di sogni premonitori, in cui il defunto anticipa al dormiente avvenimenti futuri.

Ne citiamo uno riportato da Tacito negli “Annali”, ma ricordato anche da Plinio:

«Curzio Rufo, giovane ancora insignificante e sconosciuto si era aggregato come accompagnatore al governatore dell’Africa. Nel pomeriggio mentre passeggia in un portico, gli si presenta una figura di donna più grande e più bella di una donna vera.  A lui atterrito dice di essere l’Africa, messaggera di eventi futuri: egli infatti andrà a Roma, rivestirà importanti cariche, poi ritornerà nella medesima provincia con il sommo comando e qui troverà la morte, come puntualmente avviene».

Altre volte i fantasmi popolano le case private. Racconta Svetonio nella “Vita di Augusto”:

«Nella villa suburbana dei suoi antenati, vicino a Velletri, è possibile ancora vedere il luogo modestissimo dove Augusto è stato allevato: è una stanzetta dove si dice che egli sia anche nato. Non ci si può entrare se non per necessità o riverenza. Infatti, secondo una vecchia credenza, chiunque osi entrarvi senza un preciso motivo, si sente preso da uno strano e improvviso timore. A conferma di ciò sta il fatto che un tale, subito dopo essere diventato proprietario della casa, era andato a dormire in quella stanza, incuriosito di vedere cosa potesse accadere: dopo poche ore, sospinto da una forza misteriosa, fu ritrovato fuori della porta, mezzo morto e con tutto il letto».

Un episodio narrato in una lettera di Plinio il Giovane diretta a Licinio Sura, personaggio politico e militare di grande esperienza e cultura, mostra quanto diffusa fosse la credenza popolare nelle apparizioni dei fantasmi se anche un personaggio come Plinio, dotto naturalista e uomo razionale, si poneva il problema dell’esistenza dei fantasmi. Il tono serio con cui egli tratta l’argomento rivela che il dibattito su queste strane apparizioni esisteva da tempo ed era vivace nella cultura romana. Ecco l’episodio narrato da Plinio:

«Il tempo libero offre a me la possibilità di imparare e a te, caro Licinio, quella di insegnare. Pertanto vorrei proprio sapere se tu pensi che i fantasmi esistano e abbiano una forma propria e un qualche potere divino o se, inconsistenti e vani, prendano forma dalla nostra paura. La questione merita che tu la consideri a lungo e in modo approfondito per non lasciarmi titubante e incerto, dal momento che il motivo che mi ha spinto a consultarti è stato quello di poter smettere di dubitare […]

C’era ad Atene una casa ampia e spaziosa, ma maledetta e mortifera. Nel silenzio della notte si sentiva un suono di ferraglia e, se si ascoltava con maggior attenzione, uno strepito di catene dapprima più lontano, poi vicinissimo: quindi appariva un fantasma, un vecchio malconcio per la magrezza e per l’aspetto trasandato, con la barba lunga e i capelli ispidi; portava ceppi ai piedi e catene alle mani e le scuoteva. Perciò gli abitanti trascorrevano nella veglia, per la paura, notti spaventose e terribili; all’insonnia seguiva la malattia e, col crescere della paura, la morte. Infatti anche di giorno, sebbene la visione se ne fosse andata, il ricordo di quell’immagine vagava negli occhi e la paura non cessava. La casa rimase dunque abbandonata e condannata alla solitudine e lasciata tutta a quella creatura mostruosa; tuttavia veniva offerta al pubblico, sia che qualcuno, ignaro di un problema così grave, volesse comprarla, sia che volesse affittarla. Arriva ad Atene il filosofo Atenodoro, legge l’annuncio e, sentito il prezzo, poiché lo insospettisce il fatto che sia così basso, chieste informazioni, viene informato di tutto, e nonostante questo, anzi proprio per questo, la prende in affitto. Quando comincia a far sera, ordina che gli sia preparato il letto nella parte della casa più vicina all’ingresso, chiede le tavolette, lo stilo, un lume, fa ritirare tutti i suoi nelle parti più interne della casa; egli stesso concentra nello scrivere il pensiero, gli occhi, la mano, per evitare che la mente libera si immagini i fantasmi di cui ha sentito parlare e vane paure. All’inizio il silenzio della notte; poi ecco uno scuotere di ferro, un muovere di catene. Egli non solleva gli occhi, non posa la penna, ma rafforza il suo animo e non dà peso a ciò che sente. Allora il fragore incomincia a crescere, ad avvicinarsi e a sentirsi ormai come dentro la soglia. Egli si volta, vede il fantasma di cui gli hanno parlato. Sta in piedi e fa segno con il dito come per chiamarlo. Atenodoro di rimando gli fa cenno con la mano di aspettare un po’ e di nuovo si mette a scrivere ma poiché quella strana figura fa risuonare le catene e ripete lo stesso cenno di prima, senza perdere tempo prende il lume e la segue. Il fantasma procede a passo lento, come appesantito dalle catene, ma poi devia verso il cortile della casa e svanisce all’improvviso. Rimasto solo, il filosofo raccoglie delle erbe e delle foglie, le pone su quel luogo come segno. Il giorno seguente si reca dai magistrati e li invita a far scavare in quel luogo. Si trovano delle ossa strettamente intrecciate alle catene, che il corpo consumato dal tempo e dalla terra ha lasciato nude e corrose dai vincoli; raccolte, sono seppellite a spese pubbliche. La casa da quel momento, sepolti secondo il rito quei resti mortali, è liberata dal fantasma».

Come dimenticare, parlando di fantasmi, i versi nei quali il poeta latino Properzio ricorda l’apparizione durante il sonno della donna da lui amata? Cinzia, appena morta, vestita come nel giorno delle esequie, appare in sogno al poeta e lo rimprovera aspramente definendolo “perfido” perché capace di dormire quando il lutto è tanto recente; passa quindi a rievocare una serie di momenti felici dell’amore e a rimproverarlo per le poche attenzioni ricevute al momento della morte e durante le sue esequie:

«Hai già dimenticato i nostri incontri furtivi nella insonne Suburra / e la finestra logorata dai miei notturni espedienti di fuga, / quando per raggiungerti scivolai tante volte lungo la fune, / avvinghiandomi al tuo collo ora con l’una ora con l’altra mano? /Spesso ci amammo abbracciati in un trivio, e avvinti petto a petto, / i nostri mantelli resero tiepide le vie. […] Ahi fallaci parole di silenzioso patto: / le rapirono i venti rifiutandosi di ascoltare. / Nessuno ci fu che mi consolasse quando i miei occhi vennero meno /: al tuo richiamo avrei potuto vivere ancora un altro giorno. / […] Perché tu stesso non hai implorato i venti per il mio rogo? /Perché le mie fiamme non odorarono di profumi? /Ti era così grave gettare sulla mia tomba poveri giacinti?»

Quindi il pensiero di Cinzia va a quel Properzio che le ha dedicato quasi tutta la sua attività di poeta e chiede ora a lui solo due versi da porre come epigrafe sulla sua tomba. In un’ultima esortazione lo prega di non disprezzare i sogni che giungono dalle porte dei beati perché durante la notte le anime sono libere di vagare nel regno dei vivi. Lo sente ancora legato a sé e lo aspetta al di là dei confini della vita, poiché nessun altro legame potrà mai pareggiare quello che ci fu tra loro, e l’amore trionfa anche sulla morte e libera dalla tirannia del tempo e dello spazio:

«Ora ti posseggano pure le altre; presto io sola ti terrò: / sarai con me e le mie ossa stringerò alle tue».

Nota: l’immagine è di Theodore Chassériau, Macbeth vede il fantasma di Banquo
(Nel “Macbeth” di Shakespeare Banquo ucciso a tradimento, torna sotto forma di fantasma durante un banchetto per tormentare la coscienza di Macbeth colpevole del suo omicidio)

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