di Maria Pellegrini.

«Quando Romolo pensò di fondare una città, con incredibile avvedutezza scelse un luogo quanto mai opportuno, come giustamente deve fare chi vuole dare vita a uno stato destinato ad avere durevole fortuna. Non scelse di fondarla troppo vicino al mare… ma sulla riva di un fiume dal corso perenne e regolare, e sfociante in mare con ampio sbocco, in modo da evitare i pericoli di incursioni di nemici e allo stesso tempo ricevere dal mare ciò di cui bisognava ed esportare ciò di cui sovrabbondava».

Cicerone nei primi capitoli del “De republica” espone la teoria della provvidenzialità della posizione di Roma, città protetta - per saggezza di Romolo e degli altri re che seguirono - da un tracciato ininterrotto di mura, a sua volta protetto da ogni parte da colli alti e scoscesi.

La collocazione della città narrata da Cicerone trascende le complesse vicende urbanistiche reali per acquistare le sembianze di una città ideale, destinata a divenire la sede e il centro di un immenso impero. La storia di Roma, fondata secondo la tradizione da Romolo nell’VIII sec. a. C. e divenuta capitale di un vasto impero, è stata al centro dell’interesse di studiosi di ogni età: vicende belliche legate all’espansione o ai conflitti civili, arte, architettura, religione e ogni aspetto della vita dei suoi abitanti, dai lontani tempi della monarchia alla repubblica, all’Impero, alla divisione in Impero romano d’Occidente e Impero romano d’Oriente, alle grandi invasioni barbariche in Occidente che ne determinarono il declino e la fine nel 476, sono stai raccontati, analizzati in ogni dettaglio. Immortale è il ricordo della sua civiltà, trasmessa anche da quel che resta dei suoi monumenti in tutto il territorio del vasto impero.

L’architettura di una città esprime direttamente le esigenze di una determinata società in un determinato momento ed è maggiormente legata alla classe dirigente e alle possibilità economiche attraverso la costruzione di edifici che diventano anche efficaci strumenti di propaganda per tramandare l’impronta visibile del governo. Così nelle città romane, dapprima le costruzioni si giovarono del progresso delle tecniche per la soluzione di problemi concreti, in seguito a partire dai primi anni dell’impero si tenne presente la bellezza esteriore, la decorazione, il decoro urbano con il risanamento dei quartieri malsani, l’apertura di strade, piazze, giardini per diventare città monumentali. Ecco dunque il tessuto urbano popolarsi di teatri, terme, cloache, templi, anfiteatri.

 

Un originale e interessante libro La città romana, di David Macaulay, con sottotitolo Storia della sua costruzione, pubblicato dalle Nuove Edizioni Romane (pp.130, € 14,00), tradotto e premiato in tutto il mondo, è consigliato a chiunque si interessi della storia dell’architettura di Roma. L’Autore, architetto, ma anche per lungo tempo docente universitario nella Rhode Island School of Design, affronta con grande linearità la narrazione della tecnica eseguita per la costruzione e lo sviluppo di Verbania, una città romana che con genialità narrativa egli stesso ha immaginato e descritto basandosi sui documenti relativi a centinaia di città edificate tra il 300 a. C. e il 150 d. C. La scrittura è semplice e chiara nonostante il doveroso ricorso a termini tecnici, dei quali si danno informazioni essenziali in un sintetico glossario in fondo al libro. Le illustrazioni, disegni a china eseguiti con mano leggera ed esperta dall’Autore, arricchiscono il testo e sono un complemento essenziale delle notizie riguardanti ponti, mura, acquedotti, strade, cisterne, fognature, cloache, per elencare soltanto quelle opere di pubblica utilità che i Romani costruirono nei primi secoli della loro storia seguendo il carattere pragmatico del loro operare.

Il racconto di Macaulay ha inizio con la fondazione della città immaginaria, Verbonia, con la solenne cerimonia religiosa, il solco tracciato dall’aratro che ricorda quello di Romolo narrato dalla tradizione, ma si aggiungono altri particolari: dopo aver determinato dove si sarebbero alzate le mura, «si misero all’opera gli agrimensori per tracciare i percorsi delle strade che dovevano secondo il progetto intersecarsi ad angolo retto e quindi fu indispensabile ricorrere a strumenti che, seppur rudimentali, avrebbero garantito una certa precisione dei tracciati». Nella storia della costruzione di Macaulay entrano come soggetti di analisi i materiali di costruzione (la pietra, la malta, il legno), gli operai (per lo più contadini poveri, soldati o schiavi), gli attrezzi (compasso, scalpello, trapano, pialla, sega, ascia).

Il modello della pianta della città è il “castrum”, l’accampamento militare caratterizzato da simmetria e geometrica regolarità. Il centro del “castrum” diviene il centro della città: le due strade principali il “cardo” che va da nord a sud e il “decumanus” che va da est a ovest furono allargate e allungate: «L’area rettangolare su cui era stato costruito il “castrum” fu ingrandita fino a raggiungere 650 metri di lunghezza per 560 di larghezza». Una pianta urbanistica della città di Verbonia mostra dove erano collocati il Foro, centro politico, commerciale e religioso, il mercato, le terme, l’anfiteatro, il teatro. Sulla cinta muraria si aprivano le quattro porte relative al cardo e al cumano a destra e a sinistra. Il disegno che accompagna il testo per descrivere come era l’architettura delle porte risulta più chiaro delle parole, mostra i tre fornici, cioè le tre aperture ad arco attraverso i quali si poteva transitare, con i carri in quello centrale più grande, riservato ai pedoni erano i due più piccoli ai lati di quello centrale. L’arco a tutto sesto deriva dalla tradizione etrusca ma troverà un vastissimo impiego nelle opere di pubblica utilità e nelle architetture monumentali e anche isolato, quando diventerà arco trionfale. Anche la volta dell’arco di forma semicircolare è elemento architettonico caratteristico dell’architettura romana.

Verbonia, ma così accade per la stessa Roma, con l’aumentare della popolazione ha bisogno di più acqua. Si deve provvedere con la costruzione di un acquedotto di cui nel libro si seguono tutte le fasi di realizzazione. Requisito essenziale nella costruzione è l’altezza, indispensabile a fornire la giusta pendenza alla conduttura che deve trasportare l’acqua da una sorgente naturale alla città. «Quando erano completati due piloni si collegavano con un arco. Poi al di sopra veniva costruito l’acquedotto vero e proprio: un lungo tubo rettangolare di pietra trasportava l’acqua». Una delle imprese più impegnative della civiltà romana è stata la costruzione degli acquedotti, testimonianza importantissima dell’abilità degli ingegneri idraulici dell’epoca che realizzarono quel complesso sistema di approvvigionamento idrico, unico nel mondo antico per monumentalità e funzionalità, che fece affluire nelle città una quantità enorme di acqua potabile, e a Roma come in nessun’altra città del mondo antico, tanto che la città fu chiamata “regina aquarum”.

A proposito del rifornimento idrico di Roma, Plinio il Vecchio nella sua monumentale opera “Naturalis Historia” si espresse così: «Se si calcola attentamente l’abbondanza dell’acqua nelle terme, nelle piscine, nei canali, nelle case, nei giardini, nelle ville suburbane, e il cammino percorso dalle acque per giungere in città, ma anche gli archi, i fornici, i monti forati, le valli riempite e appianate, si riconoscerà che niente di più mirabile è mai esistito su tutta la terra».

Macaulay si sofferma anche sulla necessità delle fognature «affinché il sistema idrico fosse efficiente era necessario un altrettanto efficiente sistema di drenaggio. A questo scopo si costruirono le fognature … collegate alle due cloache» opere che già durante l’edilità di Marco Agrippa attraversavano il sottosuolo dell’intera città, ed era possibile ispezionarle con una barca per l’intero percorso: ben sette corsi d’acqua incanalati trascinavano con la forza della loro corrente tutti i rifiuti fino al Tevere.

La città romana immaginaria, con il passare degli anni e il progredire delle tecniche e grazie all’ingegno degli architetti si arricchisce di strade, templi, teatri e anfiteatri, terme, dei quali si danno puntuali resoconti della progettazione, realizzazione e dei materiali impiegati. I templi sorgevano per lo più in contesti urbani, e non in posizione dominante come avveniva per i templi greci ubicati nelle acropoli. Il teatro aveva la pianta semicircolare, ma a differenza di quello greco le cui gradinate poggiavano su un colle sfruttando l’andatura del terreno, quello romano grazie all’impiego di archi e volte era costruito anche su luoghi pianeggianti con imponenti strutture necessarie a dare la giusta pendenza alle gradinate. L’anfiteatro dalla pianta ellittica, espressione architettonica originale romana, serviva non alla rappresentazione teatrale ma allo spettacolo: una delle maggiori attrazioni era la lotta fra gladiatori «quasi sempre fino alla morte dell’uno o dell’altro. In quel tipo di società - commenta Macaulay- tutto ciò era normale e non implicava alcun giudizio di carattere morale». L’arena posta generalmente più in basso rispetto al piano stradale, permetteva di limitare lo sviluppo dell’edificio in altezza.

Le terme erano generalmente costituite da un vasto edificio centrale che conteneva le vasche con acqua fredda, tiepida e calda, la palestra e giardini; i luoghi avevano una funzione sociale di incontro e svago: «erano dei posti in cui non solo ci si poteva lavare, ma anche incontrare, parlare, fare ginnastica, giocare e perfino leggere», così annota l’Autore che di queste costruzioni riporta le piante, le varie sezioni e i disegni.

Quando si descrivono le abitazioni, enorme è la differenza tra quelle dei ricchi - costruite su un piano solo e abitate da un’unica famiglia, con ambienti spaziosi, riscaldati, i pavimenti dell’atrio e del peristilio ricoperti di mosaici con disegni geometrici, le pareti affrescate con scene a colori vivaci o scenari campestri, - e quelle dei popolani, artigiani, lavoratori nel campo dell’edilizia, che abitano nelle “insulae”, appartamenti su due o tre piani, stanze piccole, dati in affitto come le botteghe situate a pian terreno con l’affaccio su strada.

Immaginando la città di Verbonia nell’anno 100 d. C. Macaulay ci propone un’immagine rassicurante, tutto funziona bene: «Le strade, sebbene piene di vita, non erano mai sovraffollate: erano sicure e comode, come negli intendimenti degli antichi urbanisti». Non la pensava così Giovenale che vissuto nel I secolo d. C. e morto nel 127 d. C., nella III delle sue “Satire” (vv. 234, sgg.) descrive una Roma invivibile:

«C’è una casa in affitto in Roma che permetta il sonno? Solo ai ricchi è permesso dormire. La colpa di questo malanno ce l’hanno soprattutto i carri che vanno su e giù dentro i budelli dei vicoli, e le mandrie che si fermano e fanno un fragore che toglie il sonno».

Quando il poeta percorre in pieno giorno le strade e non riesce a procedere speditamente, si lamenta:

«A me fa da ostacolo l’onda della folla che mi precede, mentre quella che segue mi preme come una falange compatta alle reni; uno mi pianta un gomito in un fianco, un altro mi colpisce rudemente con una stanga, quello mi sbatte in testa una trave, l’altro una botte».

Il poeta satirico, scontento della sua posizione di provinciale venuto a Roma dove non è riuscito a integrarsi nella società prevalentemente mercantile, burocratica e cosmopolita della seconda metà del I secolo d.C. ha lasciato della città e degli abitanti del suo tempo un ritratto a tinte fosche, molto simile a quelle caotiche dei nostri giorni, ma di Verbania, città ideale, non così estesa e affollata come Roma, l’Architetto che l’ha ideata e disegnata ha voluto lasciarci un’immagine decorosa che non offendesse il lavoro degli antichi urbanisti.

Nota: Nell’immagine è rappresenta la copertina del libro.

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