La Sinistra offensiva e di rottura. La lezione francese
Editoriale di Ilaria Turini
«Sinistra offensiva» e «programma di rottura». Sono soprattutto questi due concetti che ci riportiamo addosso dall’esperienza parigina dello scorso fine settimana. Abbiamo ancora dentro la paura della vigilia, il sollievo degli exit poll e la festa dei risultati: dalla rotonda Stalingrado, quartier generale della France Insoumise (Lfi), fino a place de la République, invasa da decine di migliaia di persone, e ancora oltre nelle strade e nei bar della capitale francese. Abbiamo ancora in testa le parole di Jean-Luc Mélenchon nel suo primo discorso dopo l’esito del voto: fedeltà integrale al programma, mobilitazione permanente per renderlo possibile.
Dichiarazioni all’attacco, come all’attacco è stato tutto il percorso della France Insoumise da quando dal 2016 ha iniziato a lavorare prima su un programma di rottura con il neoliberismo e poi sulla guida di una coalizione che potesse arrivare ad applicarlo. Certo l’affermazione, la crescita e l’assunzione di un ruolo guida prima della Nupes e poi del Nuovo Fronte Popolare (Nfp) da parte di questa forza politica non sarebbero mai stati possibili senza le lotte che negli ultimi otto anni hanno scosso le fondamenta della V Repubblica. Nuit Debout, Gilet gialli, Loi Travail, movimento contro la riforma delle pensioni, rivolta delle banlieue, Soulèvements de la Terre, solo per citare gli esempi principali.
Allo stesso tempo le esplosioni di movimento da sole sarebbero potute rimanere condizione necessaria ma non sufficiente per l’affermazione di una sinistra radicale. Invece Lfi ha saputo stare sempre dalla parte dei manifestanti, difendendo anche le proteste più radicali, comprese le pratiche di piazza offensive e di scontro. Dentro questi conflitti ha definito elementi di strategia e organizzazione, selezionato quadri politici. Una dinamica che vale principalmente ma non esclusivamente per il partito di Mélenchon. Anche i Verdi, ad esempio, hanno al loro interno militanti e dirigenti che vengono dalle battaglie ecologiste più dure, a cui ora devono dare conto.
Mentre centristi come Raphaël Glucksmann, il leader di Place Publique che ha avuto più interviste sui quotidiani italiani che eletti nel parlamento francese dove ha portato solo un ex-ministro macronista, o il mai troppo detestato François Hollande, responsabile del disastro socialista del 2017, tramavano per sabotare l’alleanza, le piazze francesi si riempivano per chiederla a gran voce. Mobilitazioni spontanee o chiamate dall’intersindacale. «Non ci tradite, non ci tradite», è il grido che risuonava nella sede parigina dei Verdi, dove all’indomani dell’annuncio del voto il negoziato tra i partiti veniva assediato dai manifestanti.
Non c’è Nuovo Fronte Popolare senza lotte, anche perché le proposte politiche di rottura vengono direttamente dalle mobilitazioni di questi anni. Tra le altre cose prevedono il ritiro della riforma che ha portato la pensione a 64 anni, l’aumento del salario minimo intercategoriale, la garanzia dell’istruzione e della sanità pubblica, lo scioglimento dei reparti d’assalto della polizia, il riconoscimento dello Stato palestinese, la lotta al razzismo e l’eliminazione della loi immigration, una forte tassazione dei super-ricchi e una riconfigurazione degli aiuti alle imprese.
Un programma che, nella fase attuale di compromissione generalizzata con il neoliberismo, non può che apparire come una bestemmia sia a destra che a sinistra. Forse è anche per questo che leader del Partito democratico come Elly Schlein o Andrea Orlando continuano ad augurarsi l’accordo tra le sinistre e il centro, mentre i loro colleghi socialisti d’Oltralpe si concentrano sull’unità del Fronte Popolare. Angelo Bonelli – che alle europee si è presentato con una coalizione rosso-verde ma è già pronto a dare la fiducia a von der Leyen, commissaria con l’elmetto che va in giro tra i regimi nordafricani a firmare accordi anti-migranti insieme a Meloni – ha addirittura sostenuto che i verdi francesi avessero dato l’ok al patto con i macronisti. Lo ha dichiarato poche ore dopo un comunicato unitario del Nfp e qualche ora prima che tutti i partiti della sinistra francese rifiutassero la proposta del presidente francese di una grande coalizione senza fascisti e insoumis. Ma la grande capacità di France Insoumise è anche quella di stare in alleanza quando necessario, da un lato diventando il partito con più capacità attrattiva dentro il Fronte Popolare, dall’altro in continuo dialogo aperto e anche conflittuale con i movimenti sociali, le associazioni e i sindacati, confederali e di base.
Per non parlare del sistema dell’informazione: quotidiani come il “Corriere della sera” e “Repubblica” hanno di fatto contribuito a presentare un’immagine rispettabile del Rassemblement national di Le Pen fino al primo turno, alimentando la demonizzazione continua di Mélenchon, contro il quale sono state mosse le accuse più infami, a partire da quella di antisemitismo.
La verità è che al leader della Lfi non vengono perdonate le posizioni contro il genocidio a Gaza e l’impegno nelle periferie urbane per allargare il progetto politico ad arabi e neri. Ovvero quella composizione sociale che le destre e pezzi di sinistra ritengono naturalmente impolitica, quasi fossero barbari e non cittadine e cittadini.
Lo scollamento dei media italiani dalla realtà continua in questi giorni: tutti i giornalisti, a eccezione di Filippo Ortona sul “Manifesto”, sono impegnati a descrivere la rottura imminente del Nfp e attaccare Mélenchon come la causa di tutti i mali della sinistra. Rifiutano di fare i conti con i segnali di unità del Fronte, dove Lfi resta la principale forza politica.
Con l’idea di imporre per decreto quelle più importanti. Due su tutte: pensioni a 60 anni e aumento a 1.600 euro del salario minimo intercategoriale. È sul terreno degli interventi sociali che le sinistre francesi vogliono attaccare il consenso fascista, mentre quelle italiane pensano di poterlo arginare con gli accordicchi di palazzo.
È chiaro che misure così radicali non possono essere applicate solo attraverso le procedure parlamentari, serviranno le piazze. Anzi le piazze servono da subito perché il presidente della Repubblica Macron sta vivendo un vero e proprio processo di negazione del risultato elettorale: si rifiuta di riconoscere l’esito del voto. Così si è messo alla ricerca di compromessi surreali pur di sbarrare la strada del governo agli insoumis. Mentre scriviamo, la Cgt ha già convocato mobilitazioni davanti alle prefetture e all’Assemblea nazionale per il 18 luglio, quando si insedierà il nuovo parlamento. Arrivano gli echi di assemblee con migliaia di persone dove movimenti, rappresentanti Lfi ed esponenti sindacali stanno discutendo insieme di come bloccare il paese. Non sappiamo come andrà a finire, comunque ne sarà valsa la pena.
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