La sinistra necessaria: nuovi soggetti e nuove forme organizzative

19-09-2024 - di: Fausto Bertinotti e Alfonso Gianni

Le elezioni europee hanno confermato, al di là del dato numerico, l’egemonia della destra. Il loro esito, inoltre, ha assunto una rilevanza che va oltre il nuovo assetto dell’Europa. Lo scenario politico ne esce, anche sul versante nazionale, profondamente segnato. All’analisi dei risultati abbiamo dedicato, nell’immediato, due ampie analisi di Marco Revelli (https://volerelaluna.it/commenti/2024/06/13/elezioni-a-che-punto-e-la-no...) e un primo intervento di Livio Pepino (https://volerelaluna.it/controcanto/2024/06/17/dopo-le-europee-la-necess...) teso a mettere sul tappeto alcune questioni aperte. La situazione interpella, peraltro, anche noi di Volere la Luna e i gruppi e movimenti che compongono il variegato arcipelago che ci ostiniamo a chiamare sinistra alternativa. Che fare? La domanda di sempre richiede oggi analisi particolarmente accurate e risposte all’altezza dei tempi bui che stiamo vivendo, in cui all’ormai consolidata vittoria del mercato si affiancano, in Italia, il consolidamento di una svolta autoritaria che non tollera dissenso e, sul piano internazionale, una guerra mondiale “a pezzi” che rischia di degenerare in guerra nucleare. Abbiamo, dunque, deciso di aprire, sul punto, un dibattito franco e – lo speriamo – capace di non fermarsi all’esistente e di individuare nuove modalità e nuove strade da percorrere. Le analisi e le proposte pubblicate rappresenteranno uno sforzo collettivo ma saranno tra loro assai diverse e impegneranno, per questo, solo i loro autori. Poi, a suo tempo, forti del confronto realizzato, proveremo a trarre delle conclusioni, magari in un’iniziativa di carattere nazionale su cui stiamo cominciando a ragionare. (la redazione)

Non ci vuole solo coraggio, ma anche una buona dose di temerarietà nel cercare di rispondere alla domanda che Volere la Luna ci pone: “Che fare?”. D’altro canto si tratta di una questione che è stata avanzata più volte nella storia del movimento operaio internazionale, fino a costituire il titolo di una delle opere più famose di Lenin. L’invito a rispondere non può quindi essere eluso, per quanto l’interrogativo ci appaia oggi angoscioso, date le pessime condizioni nelle quali si trova la sinistra, in diversi luoghi vittima di continue frantumazioni, quando non del tutto assente. Eppure la vera novità dell’anno in corso, almeno entro il perimetro Ue, è stata certamente la inaspettata e sorprendente vittoria della gauche in Francia, sulla base di un programma effettivamente di sinistra, almeno per quanto riguarda gli aspetti sociali, con una caduta in negativo sul tema della guerra russo-ucraina. Tutt’altra cosa, comunque, della vittoria dei labouristi in Inghilterra. Un esito felice, quello francese, che parla a tutta l’Europa e oltre, come ha dimostrato in modo emblematico l’entusiastica manifestazione che ha riempito, la sera 7 luglio, Place de la Republique, ove varie voci, diversi idiomi e accenti si rincorrevano in una sorta di polifonia internazionalista. E si poteva udire anche il nostro “Siamo tutti antifascisti” nella lingua originale “del bel paese dove ‘l sì suona”.

Le cose hanno poi preso una piega diversa che dimostra che non bisogna mai cedere a facili entusiasmi. Ma proprio quella sorta di golpe bianco messo in atto da Macron, mostra quanto le élites dirigenti francesi abbiano preso sul serio la vittoria elettorale della sinistra. L’affermazione del Nuovo fronte popolare non può essere ascritta solamente a una insorgenza dello spirito repubblicano, solitamente così vivo oltralpe, ma da tempo non suscitato. Tanto meno a un assemblaggio anti Le Pen dell’ultima ora, come hanno detto e dicono i detrattori del Nfp scommettendo sulla sua presunta fragilità. Né si tratta solo del frutto della giusta tattica elettorale basata sulla desistenza al secondo turno, che pure un ruolo lo ha avuto. Neppure può essere spiegato in base a un fatto in sé positivo e in controtendenza rispetto ad altri paesi europei: la grande partecipazione al voto nei due turni delle elezioni della nuova assemblea nazionale. Tutti questi sono piuttosto gli esiti di processi assai più profondi e di più lungo periodo che hanno animato la società civile d’oltralpe.

Diciamo le cose come stanno. Li sì che si può dire “non li hanno (abbiamo) visti arrivare”. E la ragione è abbastanza semplice: perché si guardava dalla parte sbagliata. Non si voleva prestare attenzione a ciò che si muoveva nel tessuto sociale della Francia, non solo di quella parigina o marsigliese, cioè delle grandi città cosmopolite, ma della Francia profonda, quella delle campagne o delle rotonde extraurbane, assurte, queste ultime, a importanza strategica per le forme di lotta dei gilets jaunes.

Il 25 giugno Etienne Balibar ha pubblicato sul quotidiano francese online AOC un importante saggio [in italiano, nella traduzione di Roberto Ciccarelli: ilmanifesto.it/il-popolo-a-venire-2-2-per-un-contro-populismo] sul quale conviene riflettere: non per costruire nuovi modelli fallaci, ma per mettere a tema questioni che dovrebbero interessare la sinistra di alternativa in ogni angolo del globo. Come contrastare il populismo della destra? «Dal “populista” al “popolare” c’è sia una incompatibilità radicale, sia una prossimità, un’analogia inquietante»: questo è il punto cruciale per il filosofo francese, che sviluppa una critica ai modi “classici” con i quali la sinistra, «marxista o no», ha pensato e continua a pensare alla «formazione di un popolo nel senso politico del termine». Secondo Balibar la sinistra ha sempre ragionato in termini di gruppi sociali i cui interessi vanno conciliati o, ma le due cose non sono affatto in alternativa, in termini di «partiti nel senso originario della parola», cioè di scelte di individui o comunità che si realizzano in stili di vita e professioni di fede. Bisogna prendere come base non tanto le condizioni sociali o le idee, ma «i movimenti reali», pur nella loro possibile ambivalenza e instabilità. E in Francia negli ultimi tempi questi movimenti sono stati diversi e imponenti, cosa non avvenuta altrove, tanto da descrivere un tessuto sociale in continua ebollizione, con temi e obiettivi anche eterogenei, quindi non facilmente unificabili, ma comunque capaci di esprimere ognuno nel proprio campo un elevato tasso di radicalità tale da «trasformare la difensiva in offensività, la rabbia nell’affermazione di un diritto», di essere portatori di «un’utopia concreta». Il nocciolo strategico non sta quindi nell’assemblaggio di queste tematiche in un unico programma, quanto nella valorizzazione della loro intersezionalità. Ma, aggiunge Balibar in un altro passaggio cruciale del suo ragionamento, gli obiettivi che questi movimenti esprimono, proprio per la loro radicalità, sono “universalizzabili” [vedi sul punto E. Balibar Gli universali. Equivoci, derive e strategie dell’universalismo, Bollati e Boringhieri, 2018] e dunque possono pensarsi come costruttori di una maggioranza fin qui “virtuale”, trovando nell’assemblea il loro mezzo di espressione, comunicazione e incontro. Il che non significa affatto travolgere e negare validità alle più vecchie forme e strutturazioni del movimento operaio e popolare. Anzi. Proprio in questo modo, e l’esperienza francese lo dimostra, lo stesso sindacalismo riacquista nuova linfa vitale. Proprio così le organizzazioni politiche, se ben guidate, possono rinnovarsi o addirittura rinascere.

Ciò che la Francia ci dice è che la rivificazione della politica è possibile, a condizione che essa si metta in sintonia non solo con i bisogni sociali individuati sulla base di analisi anche molto raffinate, ma con i movimenti reali, dando per scontata l’eterogeneità delle loro genesi e la parzialità dei loro fini, che la politica quindi non deve proporsi di creare dal nulla, quanto in primo luogo saperne riconoscere la potenzialità. Su un simile rapporto biunivoco tra movimenti e forze politiche si sono costruite le migliori esperienze di ricostruzione della sinistra – si pensi al rapporto nel caso spagnolo fra Indignatos e Podemos –, ma proprio la dinamicità e la complessità intrinseche nel rapporto fa sì che esso possa essere portato avanti solo grazie all’intelligenza politica dei fenomeni sociali, istituzionali e di senso connessa con la capacità di dare vita a forme di aggregazione e di organizzazione innovative. Il successo del fronte repubblicano contro la destra lepeninista si spiega con il fatto che ha saputo incontrare un senso diffuso tra la popolazione (quel “Siamo tutti antifascisti” gridato in italiano in Place de la Republique), che è stato capace di stoppare il tentativo delle destre di intestarsi le rivendicazioni sociali degli strati meno abbienti.

Ma i movimenti non si creano. Per essere veramente tali e quindi incidere nelle coscienze in modo duraturo bisogna che essi si sviluppino indipendentemente dagli input che possono provenire dal mondo politico della sinistra, quando questa c’è. Né si può pensare che la radicalità con cui i movimenti nascono provochi di per sé uno spostamento a sinistra misurabile anche in termini elettorali. Ce lo ha descritto Marco Revelli all’inizio di questo dibattito, mettendo impietosamente a confronto le lotte della Val di Susa con i pessimi risultati elettorali in quei comuni. La connessione e il reciproco influenzamento tra movimenti e sinistra esiste solo in potenza, non in un nesso deterministico. Trasformare la potenza in atto è esattamente il compito di un pensiero e di un’azione politici. Ma perché ciò accada bisogna che avanzi l’analisi delle trasformazioni e innovazioni che il capitalismo continuamente ci propone per salvare se stesso e il suo sistema. La critica dell’economia politica e delle articolazioni concrete del potere, su scala mondiale, è il fulcro di una ricerca teorica da troppo tempo abbandonata o coltivata solo in cerchie ristrette, spesso non comunicanti. Ricerca e inchiesta sociale, attenzione e partecipazione ai movimenti reali, si potrebbe riassumere.

La lotta contro le destre per la ricostruzione di un’ampia sensibilità democratica capace non solo di difendere ma di ampliare la democrazia, costruendo forme di vero e proprio contropotere sul territorio e nel tessuto economico e produttivo; la lotta per la pace contro il progressivo scivolamento verso un nuovo terribile conflitto mondiale nucleare e quella contro la desertificazione del pianeta dovute a attività climalteranti sono il terreno migliore, oltre che obbligato, per un impegno di questo tipo. Un simile indirizzo non comporta affatto l’estraniarsi dalle vicende della lotta politica e degli appuntamenti elettorali. Ma la partecipazione alle elezioni politiche o amministrative – terreni peraltro tra loro diversi, ma non abbiamo modo qui di approfondire – non è un obbligo per una sinistra in via di costruzione. Un esito negativo al vaglio elettorale potrebbe decretarne la fine prima ancora della nascita.

Un campo nel quale la sinistra può ricostruirsi e allo stesso tempo allargare il fronte democratico è rappresentato dai referendum. Strumento delicato, proprio perché di democrazia diretta, che quindi non va impiegato in ogni occasione ma a ragion veduta. Tale è quello sulla autonomia differenziata e quelli sul lavoro promossi dalla Cgil, su cui andremo a votare nella prossima primavera, a meno di colpi di mano della Corte Costituzionale sull’ammissibilità del quesito interamente abrogativo della legge Calderoli. Già l’enorme successo della raccolta di firme per richiedere il referendum e soprattutto la discussione che l’ha accompagnata, dimostrano non solo che grandi parti della società civile del nostro paese – si pensi al mondo cattolico – si sentono protagonisti di questa campagna, ma che si è riusciti ad aprire un cuneo nella presunta compattezza della maggioranza, che potrebbe anche implodere di fronte a una vittoria dei sì all’abrogazione della legge Calderoli e delle norme sulla precarietà del lavoro.

La questione elettorale porta inevitabilmente con sé il tema delle alleanze. La stessa esperienza francese lo sottolinea. Ma non si possono anteporre alleanze elettorali alla costruzione di una nuova sinistra. In questo modo non si fa altro che aggregarsi a un carro che resta guidato da altri. Tanto più che il problema è abbattere l’astensionismo, uscito vincente anche nelle ultime elezioni europee per quanto riguarda il nostro paese. Non c’è dubbio che il risultato di Avs è stato più che confortante e, in quella dimensione, francamente inaspettato. È chiaro che una parte non piccola di merito va iscritta alla composizione delle liste, in particolare per la presenza di alcune figure chiave portatrici di un messaggio qualificante per una sinistra di alternativa e contemporaneamente per una opposizione chiara al governo delle destre, quali l’antifascismo e una politica di accoglienza verso i migranti. Proprio per questo sulle spalle del gruppo dirigente, in particolare di Sinistra italiana, pesano oggi maggiori responsabilità, che bisognerebbe non andassero deluse. Come invece è andata delusa la richiesta – di puro buon senso – di presentare un’unica lista alla sinistra del Pd, invece di contribuire alla dispersione dei voti

Tutte e tutti abbiamo di fronte un doppio problema: la costruzione di una solida opposizione al governo delle destre non prigioniera di ansie governiste e la costruzione di una sinistra dotata di un chiaro profilo ideale, di una visione di società, di un programma politico, di una massa critica che non la ponga a repentaglio a ogni prova elettorale o ad ogni appuntamento di lotta. I due problemi sono tra loro distinti, richiedono materiali e modalità di risoluzione non identici. Ma vanno affrontati contemporaneamente e con urgenza, se si vuole rispondere alla domanda che emerge da una sinistra diffusa che nel paese, anche grazie a un protagonismo giovanile e femminile recentemente accresciuto, non ha mai smesso di esistere malgrado la crisi – per non dire peggio – della sinistra politica.

Del primo tema abbiamo già fatto cenno, sottolineando come la campagna referendaria offra un terreno assai favorevole allo scopo, senza al contempo sottovalutare l’apertura di una discussione programmatica fra le forze di opposizione che potrebbe permettere a quest’ultima di agire non solo in risposta alle mosse del Governo, ma cercando di imporre nel paese e nelle istituzioni una propria agenda.

Vorremmo infine consegnare l’ultima parte di queste riflessioni al secondo problema. Troppo è stato fatto per smantellare quello che una volta era il più grande e più forte Partito comunista dell’Occidente. Per risalire la china vi è bisogno di un enorme lavoro di analisi delle trasformazioni messe in atto dal moderno capitalismo, delle conseguenze che esse hanno prodotto nel tessuto sociale, nel lavoro, nel vissuto e nell’immaginario collettivo delle popolazioni, di una innovativa capacità di rapportarsi ai movimenti reali, dell’invenzione di nuove forme di organizzazione e di comunicazione. Di tutto ciò si hanno vari segnali, esperienze positive, tentativi generosi. Ma restano slegati tra loro, se non isolati, non riescono a diventare pilastri di un nuovo pensiero alternativo. Per questo è necessario e possibile dare vita a un processo costituente aperto e inclusivo, rivolto alle forze già organizzate, come alle esperienze sul territorio, capace di stabilire un percorso di ricerca e di lotta nel quale ognuno sia disposto a mettere in discussione e a disposizione se stesso, rinunciando a inutili nostalgie identitarie. Facile a dirsi, si dirà, difficilissimo a farsi perché ogni volta che se ne è presentata l’occasione è stata sepolta dalle tante obiezioni e difficoltà, alcune certamente reali e non solo dettate dall’egotismo dei minigruppi dirigenti, ma che appunto bisognerebbe scavallare con un atto di umiltà intellettuale e di coraggio individuale e collettivo.

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