di Alfonso Gianni - Il Manifesto 26.02.2020.

La letteratura, come tutta l’arte è la confessione che la vita da sola non basta, diceva Ferdinando Pessoa. Ma il problema è se è possibile distinguere ciò che arte da ciò che non lo è, e come farlo. Roberto Gramiccia prende la questione di petto e pone in premessa al suo ultimo lavoro (Se tutto è arte … , prefazione di Alberto Dambruoso, postfazione di Pietro Folena, Mimesis 2019, pagg. 123, euro 12,00) un’affermazione categorica “O riteniamo che tutto sia arte e allora l’arte come tale non esiste perché è indistinguibile dal tutto, o riteniamo che non tutto lo sia e allora bisogna capire che cosa può essere considerato arte. Tertium non datur.” Per quanto sia ineccepibile sul piano della logica formale, questa considerazione nasconde molte insidie che l’autore peraltro riconosce affermando “cosa sia effettivamente l’arte resta da sempre uno dei più grandi interrogativi umani e di conseguenza anche una delle cose più complesse da definire.” Una via di fuga sembrerebbe essere stata offerta da un grande estetologo milanese, Dino Formaggio, operaio giovanissimo alla Brown Boveri, approdato all’Università e alla laurea nel 1938 attraverso le scuole serali, a buon diritto uno dei maestri di quella “Scuola di Milano” che aveva in Antonio Banfi il suo punto di riferimento. Formaggio afferma infatti che “arte è tutto ciò che gli uomini chiamano arte”. Ma la tautologia concettuale è solo apparente. Infatti egli avverte che si tratta di “una formula importantissima che permette di sdogmatizzare quello che è il problema dell’arte”, quindi va letta in netta contrapposizione all’affermazione crociana secondo cui “l’arte è ciò che tutti sanno cosa sia”. Dunque il problema resta e il lavoro di Gramiccia, non solo qui, ma anche in sue precedenti opere, vuole essere un contributo a una sua corretta tematizzazione. Il che può avvenire seguendo lungo il tempo i rapporti fra arte e mercato. Gli artisti, compreso i sommi, hanno spesso agito su input di committenti; anche per Marx, a ben leggerlo, anche l’oggetto artistico è merce in quanto valore d’uso, dotato di un valore di scambio fra un proprietario e un compratore e soprattutto implicante una divisione del lavoro nella società. Ma ora siamo di fronte ad un grande cambiamento, che va ben al di là della “perdita dell’aura” di benjaminiana memoria. Gramiccia situa la grande faglia, da cui scaturisce l’arte post-contemporanea, nei processi intervenuti lungo gli anni Settanta, con la fine dei “trenta gloriosi” e l’affermarsi di un nuovo potente ciclo di globalizzazione di un finanzcapitalismo sempre più invasivo. Per dirla con Tomaso Montanari l’arte si è liberata dalla volontà dei committenti per diventare schiava del mercato. Per questa strada arriviamo alla Cloaca turbo di Wim Delvoye o alle recentissime banane attaccate al muro con lo scotch di Maurizio Cattelan. David Datuna ne ha staccata una e l’ha mangiata in pubblico, malgrado il suo costo proibitivo. Su Instagram è diventato famoso come the hungry artist. Del resto l’opera era stata pensata come sostituibile. Ovvero dalla perdita dell’unicità dell’opera d’arte a causa della sua riproducibilità, al suo rimpiazzamento. Il capovolgimento è totale: l’oggetto della creazione artistica non è il suo prodotto ma il gesto che lo fa, la performance. Gramiccia in chiusura ci propone perciò una sorta di statuto in sei punti per delineare cos’è l’arte. Non una codificazione ma elementi per una discussione. Quella cui ha partecipato qualche settimana fa a Roma un foltissimo pubblico in occasione della presentazione del suo libro con annessa una bella mostra di opere di 45 artisti.

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