Se governa la finanza. Intervista a Giorgio Lunghini
PERUGIA - Che cos’è che ti colpisce di più della crisi attuale dell’Europa? L’immutabilità del paradigma liberista? L’intoccabilità della finanza? L’incapacità politica?
Colpiscono tutte e tre le cose, che però vanno ridefinite. È davvero liberista la politica economica europea, una politica economica in verità imposta da un solo paese, la Germania? In che senso la finanza è intoccabile, se non nel senso che essa finanza è al governo e che dunque la politica è impotente? La finanza è al governo perché l’Unione Europea, non essendo una unione politica, è indifesa nei confronti di quello che Chomski, riprendendo Eichengreen, chiama il “senato virtuale”.
Questo senato virtuale è costituito da prestatori di fondi e da investitori internazionali che continuamente sottopongono a giudizio, anche per mezzo delle agenzie di rating, le politiche dei governi nazionali; e che se giudicano ”irrazionali” tali politiche – perché contrarie ai loro interessi – votano contro di esse con fughe di capitali, attacchi speculativi o altre misure a danno di quei paesi (e in particolare delle varie forme di stato sociale). I governi democratici hanno dunque un doppio elettorato: i loro cittadini e il senato virtuale, che normalmente prevale.
Ma ciò che colpisce di più è la straordinaria occasione storica che l’Europa ha mancato, nonostante le risorse naturali, economiche, umane e culturali di cui dispone: l’occasione di diventare una Unione democratica e giusta, ricca e indipendente.
La costruzione europea si è fondata su mercati e monete. C’era un’alternativa?
Il modello c’era, era quello prefigurato dai grandi federalisti italiani. Scriveva Ernesto Rossi, nel 1953: “Una tesi degli “esperti” [una tesi sostenuta dall’allora presidente della Confindustria, Angelo Costa] è che non è necessario costituire un’autorità politica sovranazionale incaricata della unificazione del mercato europeo. L’unione economica, secondo loro, può essere anche raggiunta con trattati che, conservando integra la sovranità degli Stati nazionali, aboliscano i contingenti alle importazioni, riducano la protezione doganale, regolino la convertibilità delle monete. Solo quando avremo così costruite le mura maestre dell’edifico europeo – essi dicono – potremo metterci sopra il tetto di un governo federale.”
Questa, infatti, fu la strada intrapresa, ma – avvertiva Rossi – “la verità è che, a questo modo, non si costruisce un bel niente: soltanto l’unificazione politica ci può dare la garanzia che il processo di unificazione economica sarà un processo irreversibile”. Si può forse tornare indietro e ricominciare da capo?
La finanza internazionale ha avuto un’espansione straordinaria. Che cosa è cambiato nel funzionamento del capitalismo?
Un sistema economico capitalistico – un’economia monetaria di produzione, nel linguaggio di Keynes – è impensabile senza moneta, senza banche e senza finanza, dunque nella struttura del sistema gli elementi reali e gli elementi monetari sono strettamente interconnessi. Tra elementi reali ed elementi monetari c’è però una gerarchia, nel senso che un sistema economico capitalistico potrebbe riprodursi senza crisi, per usare il linguaggio di Marx, soltanto se la distribuzione del prodotto sociale fosse tale da non generare crisi di realizzazione, di ‘sovrapproduzione’ (di sovrapproduzione relativa: rispetto alla capacità d’acquisto, non rispetto ai bisogni); e soltanto se moneta, banca e finanza fossero soltanto funzionali al processo di produzione e riproduzione del sistema, e non dessero invece luogo a sovraspeculazione e a crisi di tesaurizzazione.
Nel linguaggio di Keynes, non si darebbero crisi se la domanda effettiva, per consumi e per investimenti, e la domanda di moneta per il motivo speculativo fossero tali – by accident or design – da assicurare un equilibrio di piena occupazione. Ora è improbabile che questo caso si dia automaticamente, di qui la necessità sistematica di un disegno di politica economica. In breve: il sistema capitalistico – il ‘mercato’ – non è capace di autoregolarsi.
Negli ultimi anni (decenni) si è avuto un cospicuo spostamento, nella distribuzione del reddito, dai salari ai profitti e alle rendite finanziarie, e dunque si è determinata un’insufficienza di domanda effettiva e una disoccupazione crescente. D'altra parte la finanza è diventata un gioco fine a se stesso. In condizioni normali la finanza è un gioco a somma zero: c’è chi guadagna e chi perde; ma quando essa assume le forme patologiche di una ingegneria finanziaria alla Frankestein, ci perdono tutti: anche e soprattutto quelli che non hanno partecipato al gioco. Tuttavia non è con delle regole e con delle prediche che lo strapotere della finanza può essere ridimensionato.
Quali sono le politiche alternative che servirebbero all’Europa per uscire dall’impasse?
Sarebbe stato necessario dotare l’Unione dello strumento fiscale, e dubito che ciò sia possibile fare oggi. Un’Unione economica dotata soltanto dello strumento monetario, e la cui filosofia monetaria – dettata dalla memoria tedesca della repubblica di Weimar – ha come unico obiettivo il controllo dell’inflazione, è costituzionalmente incapace di incidere sulle determinanti reali della crisi in atto: l’incapacità a provvedere la piena occupazione e la distribuzione arbitraria e iniqua delle ricchezze e dei redditi.
Una buona ricetta, liberale, l’aveva proposta Keynes: redistribuzione della ricchezza e del reddito, eutanasia del rentier, e una socializzazione di una certa ampiezza dell’investimento. Ma Keynes, come si sa, era una Cassandra. A riproporre oggi quella ricetta si verrebbe bollati come bolscevichi.
E in Italia che cosa si potrebbe fare?
Temo che sia troppo tardi per fare qualcosa di risolutivo. Un errore madornale di tutti i governi è stato quello di ricorrere a una politica dei due tempi: prima il risanamento, poi la crescita. Una politica dei due tempi non può realizzare nessuno dei due obiettivi: basterebbe studiare un po’ di teoria e storia della politica economica per saperlo.
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