di Francesca Marcellan - VolereLaLuna.

“L’ufficiale e la spia” si apre e si chiude (in chiusura è un richiamo simbolico) sulla scena della degradazione militare di Dreyfus, e la degradazione (in senso di decadimento, deterioramento) è uno dei temi centrali del film, così come fin da questa scena è usata la figura retorica che lo dominerà, quella del paradosso. Questa prima scena è ostentatamente lunga, poiché è seguita in tempo reale in tutto il suo dipanarsi. Il ritmo incalzante di questo film, che coinvolge a trascina con sé lo spettatore, avrà altri rallentamenti, imprevedibilmente su scene apparentemente secondarie, quasi di raccordo. Scene “riflessive”, determinanti per l’interpretazione del film.

Nell’enorme cortile di un palazzo vediamo innumerevoli soldati ordinatamente schierati. Un piccolo gruppo di soldati a piedi (li abbiamo seguiti dal loro ingresso nel cortile) avanza al rullo dei tamburi, fino a raggiungere dei superiori a cavallo. Uno di questi proclama la degradazione (la pena prevista dal codice penale militare che comporta la perdita del ruolo e delle decorazioni) di Alfred Dreyfus (Louis Garrel), che viene immediatamente eseguita: gli vengono strappati i gradi e ogni segno distintivo della sua uniforme, perfino le bande colorate dei pantaloni. Tra gli alti ufficiali che assistono alla scena, tra i quali compare il colonnello Georges Picquart (Jean Dujardin), c’è uno scambio di battute sarcastiche. Chi ci colpisce è un uomo con una giacca azzurra (impareremo presto a distinguere gli uomini dalle uniformi, a capire che le giacche con alamari sono riservate solo ai più alti in grado e che sono solo le uniformi a fare la differenza tra le persone, essendo completamente indifferente quello che c’è dentro). L’uomo con la giacca azzurra trema e questo tremore ostentato spicca tra le pose rigidamente marziali di tutti gli altri. È la nota stonata, il minuscolo indizio della voragine di caos che si nasconde sotto l’ordine supremo, geometrico che regna in questo esercito schierato. La macchina da presa ci fa vedere, fuori dalle cancellate, la folla vociante contro Dreyfus, e l’ufficiale dalla giacca azzurra, che poi scopriremo essere il colonnello Jean Sandherr (Eric Ruf), uno dei principali responsabili della condanna, commenta: «I Romani davano in pasto ai leoni i cristiani, noi gli ebrei». Affermazione paradossale: la Francia, paese cattolico, è teoricamente diretta discendente di quei martiri perseguitati, ma anziché identificarsi con loro si riconosce nei Romani. Ciò che conta non è il contenuto ma la funzione che si riveste: il potere ha sempre ragione e non è tenuto alla coerenza tra le sue azioni e i valori che professa.

Dopo questa prima scena, il film si mette alle calcagna del colonnello Georges Picquart, già tra gli accusatori di Dreyfus, che posto a capo dell’ufficio di Statistica (il servizio segreto dell’esercito) dopo il pensionamento di Sandherr, scoprirà casualmente il vero colpevole e deciderà di andare anche contro i suoi superiori per far riaprire il caso. È dunque Picquart il vero protagonista nel quale lo spettatore è spinto a identificarsi, uomo medio della Francia dell’epoca nel bene e nel male: moderatamente antisemita, moderatamente amorale (va da molti anni a letto con Pauline ‒ Emmanuelle Seigner ‒, la donna di un amico, e quando lei gli chiede se non si senta in colpa, risponde: «Perché? Non è mica mio marito»), ma anche moderatamente onesto. Basta questa più o meno piccola dose di onestà per renderlo un corpo parzialmente estraneo in un esercito e in una società degradati. La sua estraneità è subito evidente nella scena in cui prende possesso del suo nuovo ufficio. Vediamo con i suoi occhi la facciata di un palazzo dall’aspetto decadente e poi lo vediamo varcarne la soglia (le porte e le scale saranno un leit-motiv del film, come del resto in altri film di Polanski: si pensi ai folgoranti inizi di Venere in pelliccia, col lungo piano sequenza che conduce alla porta d’ingresso di un teatro, o di La nona porta, in cui ci si addentra vertiginosamente in un infilata di porte). L’interno non è migliore dell’esterno: il portiere sta dormendo, in una stanza fumosa degli informatori giocano a carte, nelle stanze ristagna un odore di fogna ed è impossibile aprire la finestra, che è bloccata (più di un tentativo di Picquart, nel corso del film, andrà a vuoto). Altro paradosso: proprio chi dovrebbe ripulire la società sprofonda nella merda.

Questo paradosso, e questo scollamento, diventa ancora più evidente poco dopo, nella scena in cui Picquart si reca per un passaggio di consegne (una lunga lista di persone da espellere in caso di guerra) a casa di Sandherr. L’aspetto di Sandherr è ributtante: giace a letto roso dalla sifilide, gonfio, sfigurato dalle pustole. Una degradazione ben diversa da quella simbolica e rituale di Dreyfus, poiché qui si tratta di una vera degradazione, reale e ripugnante. E proprio da questa figura presentata come marcia sentiamo parole di sdegno e disprezzo verso gli stranieri e gli ebrei, ai quali si dovrebbe la decadenza della Francia. Parole che suonano così dolorosamente paradossali.

Picquart, per quella sua piccola dose di estraneità, non accetta la situazione e opera dei cambiamenti nell’Ufficio: via il portiere, via gli informatori. E si sostituisce al suo vice Hubert Henry in un compito delicato: farsi consegnare dalla donna delle pulizie dell’ambasciata tedesca le carte contenute nel cestino della spazzatura dell’addetto militare Maximilian von Schwartzkoppen. Si tratta della medesima fonte che aveva portato alla condanna di Dreyfus. Qui si inserisce una lunga scena, che crea una suspense apparentemente esagerata per un piccolo fatto. Picquart va nella chiesa in cui deve avvenire lo scambio, una brutta chiesa ottocentesca neogotica, uno stile che è solo la copia di un altro stile (vedremo poi perché si tratta di un dettaglio importante). Si siede in un banco in fondo, attende e nell’attesa sfoglia una Bibbia (o un libro di preghiere) che trova lì, mettendolo poi rapidamente da parte. Un accostamento ironico e anche questo, in un certo senso, paradossale: gli scritti che ansiosamente attende non sono parole divine e rivelate, ma parole scartate e strappate, frammenti di carta da ricomporre faticosamente. Era (era?) una società fatta così, sembra dire Polanski: cercava la verità nella spazzatura. Luogo quanto mai inadatto per trovarla.

Una scena successiva, ambientata nella sezione archeologica del Louvre, ci fa chiaramente capire che la verità è in realtà introvabile. Picquart qui incontra un agente che dovrà raccogliere informazioni sul colonnello Esterhazy, che dai nuovi indizi da lui raccolti sembra ora essere il vero colpevole del tradimento attribuito a Dreyfus. Nell’osservare la statua Apollon vainqueur du serpent Python, P. nota che si tratta di una copia di un originale classico perduto. L’agente commenta: «Allora è un falso»; «No, è una copia», puntualizza Picquart, con una battuta rivelatrice: di fronte a una verità perduta o inattingibile, la scelta è tra la falsificazione e uno sforzo di fedeltà all’originale che però, per l’appunto, non può essere niente più che una copia. Infatti anche la condotta di Picquart è, nel bene e nel male, una copia dell’onestà, che gli permetterà di fare carriera. Il vero onesto è totalmente fuori dal mondo (e infatti è finito letteralmente fuori dal mondo: all’Isola del diavolo, un’ironia della storia che Polanski non manca di sottolineare), un corpo estraneo addirittura incapace di rapportarsi con questo mondo. L’unico per cui una parola come onore può avere il suo vero senso. L’unico che crede davvero in quei valori in cui tutti fingono di credere. Lo percepiamo onesto quando, al momento della degradazione, grida «Viva la Francia, viva l’esercito». Il problema è che Dreyfus, al tempo stesso, è una figura leggermente ridicola, nella sua rigidità magistralmente resa da Louis Garrel. Cosa c’è di ridicolo? Forse che un ebreo creda in una organizzazione intrinsecamente antisemita? Il difetto è nei valori stessi, ipostatizzati da una società malata? Polanski, giustamente, non risponde. Le domande che pone, però, fanno capire quanto siano fuori luogo le polemiche che hanno accompagnato l’uscita del film, visto come un’operazione auto assolutoria del regista in relazione alla condanna inflittagli in America. Polanski non solo non si identifica nell’innocente perseguitato Dreyfus, ma ne dà anche un ritratto problematico. Casomai l’effetto è, al contrario, riduzionistico della persona del regista: l’identificazione è con Picquart, sia in quanto protagonista della storia, sia perché esplicitamente suggerito, nella scena di una festa, da una panoramica che passa per Polanski in veste di comparsa tra gli invitati e si conclude su di un primo piano di Dujardin. E Picquart è un uomo di successo come Polanski (alla fine del film lo troveremo ministro), ma non certo immune da colpe e difetti.

L’ipocrisia della dimensione pubblica si specchia in quella privata. Anche qui, paradossalmente, le “copie” più fedeli dell’amore sono quelle irregolari, come la coppia adulterina Picquart-Pauline e quella omosessuale formata dai due addetti militari rispettivamente dell’ambasciata tedesca e di quella italiana. Nell’osservarli da una finestra, Picquart vede che si scambiano una carezza sul volto nell’accomiatarsi e commenta stupito: «Ma sono innamorati!». Non a caso poi Pauline, una volta divorziata, rifiuta la proposta di matrimonio di Picquart, preferendo «continuare come abbiamo sempre fatto, perché non siamo fatti per il matrimonio» (cioè non siamo fatti per la falsità). Ancora una volta la versione originale del sentimento è solo quella tra Dreyfus e la moglie, per quanto appena accennata: sarà proprio leggendo la loro corrispondenza che Picquart si sentirà ulteriormente spinto ad agire perché sia individuato il vero colpevole. Ciò che lo rende diverso dal mondo che lo circonda è la capacità di riconoscere l’esistenza della verità, pur muovendosi in un mondo di copie.

Questo delle lettere è un altro leit-motiv fondamentale del film: la lettera (il borderau recuperato tra la carta straccia) che incastra Dreyfus; le lettere di quest’ultimo alla moglie, intercettate; le lettere inviate da Picquart a Pauline, sottratte e mostrategli dai suoi superiori per ricattarlo e farlo tacere. Al suo arrivo nell’Ufficio di Statistica, Picquart entra nel laboratorio in cui le lettere vengono aperte (a secco o a vapore, si precisa) e quando obietta che si tratta di lettere private, Henry commenta sprezzante: «Ora non più». E in effetti tutte le lettere che si vedono nel film sono lette sempre da qualcun altro che non è il suo vero destinatario, che le usa per accusare, ricattare, costruire false verità, come nella perizia falsamente oggettiva del grafologo Alphonse Bertillon (Mathieu Amalric), capace di sostenere una cosa e anche il suo contrario per dimostrare che Dreyfus è comunque colpevole, come fa notare l’accusato stesso. La freccia non centra il suo bersaglio, il messaggio non arriva mai e anzi serve sempre ad altro o ad altri, in una visione profondamente sfiduciata che trova l’unica occasione di riscatto nel J’accuse di  Émile Zola, l’editoriale pubblicato su “L’Aurore” che dà il titolo originale al film. Qui la parola inchioda tutti i responsabili, raggiungendoli uno per uno, casa per casa, come ci è mostrato in una scena di grande efficacia. Solo chi prende la parola in pubblico, sembra dirci Polanski, assumendosene la responsabilità, riesce ad avere il pieno controllo di ciò che dice: un invito ad avere coraggio e un atto di fiducia verso artisti e intellettuali, qual era Zola, capaci di assumersi il ruolo e il compito che spetta loro.

Questo invito al coraggio è esplicito in una scena decisiva, anche questa insolitamente lunga per quello che dovrebbe essere un semplice momento di raccordo, neppure necessario da mostrare. Picquart è in carrozza, attraversa strade buie, lo percepiamo in qualche modo esitante, infine scende, paga il fiacre, si avvicina a una casa e bussa alla porta. Scopriremo che si tratta del quartier generale dei dreyfusardi, ai quali finalmente ha deciso di unirsi. Nel tragitto, apparentemente banale, che ci è appena stato mostrato si è svolto un avvenimento fondamentale, si è sciolto il dilemma del protagonista. Scegliere da che parte stare. Con tutti i limiti, le approssimazioni, le inadeguatezze nostri e del mondo in cui viviamo, questa è la sola cosa che comunque possiamo e dobbiamo fare.

Questo è il cuore del film. Tutt’intorno Polanski ha costruito un racconto incalzante e avvincente, precisissimo dal punto di vista figurativo (facce e ambienti sembrano presi di peso dalla pittura dell’epoca, con puntigliosità viscontiana), ma il suo cuore gli permette di non essere solo un bello spettacolo, ma anche e soprattutto la riflessione profonda di un grande maestro, che vale davvero la pena di ascoltare.

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