di Maria Pellegrini.

Sebbene la parola “romanzo” non compaia nelle opere antiche, le sue caratteristiche - racconto d’invenzione, d’amore e d’avventura - hanno trovato espressione nel nostro mondo occidentale già nell’“Odissea” di Omero, archetipo di tutte le forme romanzesche sorte più tardi. Nel mondo greco tra il I e il IV secolo d. C si possono riconoscere forme narrative che anticipano il genere letterario del romanzo con vicende di amore e di avventure fantastiche. La cultura latina ha prodotto due opere classificate da noi posteri come romanzi: il “Satyricon” di Petronio Arbitro del I secolo d. C. e le “Metamorfosi” di Lucio Apuleio, II secolo d. C.
Il “Satyricon”, scritto sotto il principato neroniano, giunto in forma frammentaria con la sua alternanza di brani in prosa e versi, rappresenta ormai il più celebre romanzo dell’antichità nonostante la contaminazione di generi, stili e linguaggi che lo rende nel panorama dell’intera letteratura latina un unicum enigmatico e affascinante.
Del suo autore, Petronio Arbitro, non possediamo dati certi. Tacito lo identifica con il Petronio vissuto alla corte di Nerone, un eccentrico gaudente, famoso per l’eleganza e la dissolutezza dei costumi. Al culmine di una fortunata carriera politica si concede a ogni piacere della vita, e consegue una tale fama in questa arte da diventare amico intimo di Nerone in qualità di “elegantiae arbiter”. Da qui forse il soprannome “Arbiter”. Nell’anno 66 d. C., accusato di aver partecipato alla congiura di Pisone contro l’imperatore, è costretto a darsi la morte che egli affronta con noncuranza tra i piaceri d’un banchetto.
Con l’impero, soprattutto dopo Augusto e Tiberio, il prestigio dell’aristocrazia senatoria è crollato; sotto Caligola, Claudio, Nerone, il dinamismo imprenditoriale della borghesia e dei liberti ha preso il posto dell’immobilismo dei latifondisti aristocratici. Il “Satyricon” è l’espressione di questa situazione, uno straordinario documento della società imperiale romana nella sua piena decadenza, popolata da arricchiti, poetastri, truffatori, lascive matrone e avidi parassiti. Uniche entità onnipotenti: il denaro, il sesso, la morte.
Ricostruire la struttura e il contenuto del romanzo non è semplice perché il testo non è conservato integralmente. Manca l’inizio (ma ci sono allusioni all’antefatto) e la fine lacunosa non permette di immaginare alcuna conclusione. L’intera vicenda si svolge come viaggio senza meta di due studenti vagabondi, Encolpio (l’io narrante) reso impotente dal dio dell’eros Priapo - che si vendica per una offesa ricevuta e gli provoca una serie di tragicomici insuccessi erotici - e il giovane amante Gitone. Ai due si affianca Ascilto, a sua volta attratto da Gitone, ma questo contorto triangolo amoroso è fonte di gelosia e di liti. Questo terzetto, cinico e amorale, affronta con spirito di avventura ogni esperienza e vive di espedienti, ruberie e pranzi scroccati. Coinvolti da Quartilla, una donna lussuriosa, in un rito orgiastico in onore di Priapo, i tre sono sottoposti a prestazioni erotiche imbarazzanti, ma poi riescono a fuggire e accettano l’invito per un banchetto in casa di Trimalchione, un ricco liberto.
La “Cena Trimalchionis”, una sezione rilevante dell’opera, si svolge in un susseguirsi di esibizioni di ricchezza e cattivo gusto. Petronio guarda il mondo con l’occhio dell’aristocratico, cioè di un rappresentante della classe sconfitta, ma la sua ironia nei confronti dei ceti emergenti, di cui Trimalchione è uno straordinario campione, non è mai moralistica irrisione, e, al contrario, accanto alla rozza e ignorante esibizione dello strapotere finanziario di questo ex schiavo si evidenziano accenti di sottile ammirazione per la sua invadente vitalità. Fin dal suo primo apparire sulla scena, ogni dettaglio, dall’abbigliamento all’arredamento della casa, dallo sfoggio della sua prodigalità alla presentazione delle pietanze, dalla boria goffa e soddisfatta per la sua ricchezza, tutto è un trionfo di volgare ricercatezza, narrato da Petronio con straordinario realismo dove predomina il linguaggio popolare, permeato di parole greche, di espressioni proverbiali, icastici modi di dire, saggezza da marciapiede, con un risultato di eccezionale interesse per la comprensione della mentalità di un ceto in ascesa nella società del tempo.
Accanto a Priapo, un’altra presenza aleggia nel romanzo: un cupo sentimento di morte, per cui il “Satyricon” può definirsi una frenetica vicenda che si svolge sotto il segno di Eros e Thànatos, Amore e Morte. Durante la cena, pur nel tripudio della sua ricchezza, Trimalchione alla vista di un piccolo scheletro d’argento gettato sul tavolo da uno schiavo, sentenzia sul triste destino degli uomini:
 “Ah, poveri noi. Ben poca cosa è il misero uomo. / Così saremo tutti, quando ci avrà rapiti l’Orco. / Viviamo dunque allegramente, finché ci è concesso!”
Il tema della morte, sempre presente nel romanzo, diventa macabro e grottesco quando nel momento culminante della cena egli descrive il suo monumento funebre in costruzione. Con la megalomania funeraria tipica dell’arricchito egli descrive le sculture desiderate a ornamento della tomba: le navi che vanno a gonfie vele, una statua che lo rappresenti mentre semina soldi in mezzo al popolo, alla sua destra quella della moglie Fortunata che tiene in mano una colomba e porta a spasso la cagnolina al guinzaglio, al centro un orologio in modo che chiunque guadi l’ora, lo voglia o no, leggerà il suo nome. La grandiosità dell’opera rivela la smania di assicurarsi un riconoscimento sociale, che sfocia invece nell’ammissione soddisfatta della sua ignoranza, infatti nell’epitaffio vuole che si scriva: “Pio, forte, fedele, venne su dal niente, lasciò trenta milioni di sesterzi, e non fu mai uditore dei filosofi”. Ma la rozzezza dell’uomo si manifesta con un ultimo provvedimento preso a salvaguardia del suo monumento funebre: “Metterò un liberto a guardia fissa della mia tomba, perché sul mio sepolcro la gente non corra a cacarci sopra”. Il cattivo gusto è così trionfale e aggressivo da farsi elemento indispensabile del quadro più che bersaglio della satira. Trimalchione non suscita sdegno o ribrezzo: egli appartiene alla razza dei costruttori di ricchezza, che non possono permettersi il lusso dell’equilibrio, della finezza, del dubbio.
All’idea della morte il tragico si mischia al comico, e ne deriva il grottesco, in quella folla di golosi scossi da un pianto che nasce da finzione ma diviene sincero e collettivo lamento sulla sorte comune: “Trimalchione cominciò a piangere a dirotto. Piangeva anche Fortunata, piangeva anche l’architetto del monumento funebre e infine tutta la servitù riempì di lamenti il triclinio”.
Nella confusione, mentre tutti piangono come se stessero assistendo al funerale, i tre vagabondi si allontanano e riparano in una locanda. Encolpio trova un nuovo compagno nel poeta Eumolpo, I due diventano poi compagni di viaggio insieme a Gitone in una serie di rocambolesche avventure complicate dalla gelosia di Encolpio che scopre in Eumolpo un nuovo rivale che insidia il giovane da lui amato. Il terzetto (di Ascilto non c’è più traccia) s’imbarca su un mercantile che una bufera fa colare a picco.  La scena del naufragio è dominata dal cadavere del capitano dell’imbarcazione che approda sulla riva dove i tre sopravvissuti vedendo lui, così iroso e protervo in vita, muto e assente nell’immobilità della morte, sono presi da pietà:
“Costui in qualche parte dell’orbe terrestre ha una moglie che lo aspetta tranquilla, e forse un figlio ignaro della tempesta, o almeno un padre da cui partendo s’è accomiatato con un bacio. Questi sono i progetti dei mortali [...] E non solo il mare si mostra così sleale con gli uomini. Uno mentre combatte lo tradiscono le armi, un altro lo seppellisce la rovina della sua casa, un altro ancora mentre s’affretta, sbalzato dal carro esala l’anima, il goloso è strozzato dal cibo, il frugale dal digiuno. Se fai bene il calcolo, il naufragio è dovunque”.
Non c’è qui compiacimento letterario, ma soltanto un’elementare intuizione del mistero della vita e della morte, e amara solidarietà che per un attimo si fa pianto e meditazione.

L’ultima parte, la più lacunosa, riserva altre sorprese: a Crotone, dove i tre ribaldi hanno trovato rifugio, pullulano i cacciatori di testamenti, Eumolpo si finge ricco e malato, i due amici figurano come servi. Gli abitanti gareggiano in generosità per ereditare i beni millantati, ma nel testamento egli si beffa dei creduloni: soltanto coloro che mangeranno il suo cadavere saranno suoi eredi. Torna l’idea della morte, anche se in chiave grottesca e ironica.
L’originalità del Satyricon non risiede soltanto nello spirito parodistico e nelle aggrovigliate e numerose avventure dei protagonisti, ma nell’ironia distaccata dell’Autore, nella rappresentazione di strati della società esclusi solitamente dalla letteratura antica, nell’avere rappresentato l’età di Claudio e Nerone che ha visto l’affermarsi di quei liberti che con adulazione e furberia diventano onnipotenti, nell’aver trattato l’amore, anche quello omosessuale, esplicitamente senza compiacimento morboso o senso del peccato, ma non si può tralasciare la sottesa dolorosa consapevolezza della precarietà della condizione umana che attraversa tutta la narrazione.

Nel romanzo di Petronio rispetto a tutte le opere latine si respira un’aria nuova, quella delle strade e dei vicoli, delle distese marine o campestri, delle sale affollate di commensali sudati e vocianti, degli albergucci sudici con i loro avventurieri, grassatori, omosessuali, prostitute, dei mercati brulicanti di piccoli affaristi e truffatori, di dimore rispettabili abitate da signore lussuriose o da ragazzini furbastri già iniziati alle più sottili malizie dell’eros perverso. È da notare che pur in tante situazioni scabrosamente erotiche, l’Autore evita ogni forma di turpiloquio, al quale sostituisce una grande quantità di abili metafore, con delle vere e proprie invenzioni linguistiche.
Fra tutti gli autori latini, Petronio, forse alla pari con il solo Plauto, è quello che meglio crea, anzi inventa, personaggi descritti attraverso le loro azioni o i loro discorsi. Non mostra di amarli, ma neanche li disprezza, li rappresenta in movimento o in conversazione, non inorridisce alle loro meschinità, ma non sorride delle loro debolezze e passioni, li segue passo passo con una penetrazione umana e psicologica che però esclude ogni forma di partecipazione.

Immagine dal film "Satyricon" di Fellini.

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