di Elio Clero Bertoldi

Due minuti e 4’’ di immagini che sembrano venire dal Medioevo, anche se vittima e carnefici indossano abiti moderni. Lui, Saadi al Gheddafi, ex calciatore del Perugia e poi dell’Udinese e della Samp, porta una tuta verde, con righine bianche, quella della nazionale libica di una volta (di cui era capitano e leader); sugli occhi gli hanno stretto una benda nera che non gli permette di vedere. La scena si svolge nel carcere di Habda e risalirebbe al 2014, dopo la cattura seguita all’espulsione dal Niger, dove lui, sua moglie e i suoi figli (una delle femminucce era nata all’ospedale di Monteluce) si era rifugiato, prima del linciaggio del padre, Muammar.

I carcerieri trascinano nella stanza un marchingegno degno dell’Inquisizione, fanno sedere Saadi a terra - intanto da un locale attiguo arrivano le grida, sconvolgenti, di dolore di un altro seviziato - lo costringono ad alzare le gambe e gliele imprigionano, con i piedi scalzi su una barra di ferro, le piante rivolte verso l’alto, le caviglie bloccate con dei lacci. Ed ecco cheumbria un aguzzino lo colpisce più volte con una verga sotto i piedi. Saadi grida, contorce piedi e dita. Altra scena: gli aguzzini lo costringono a sedere su una sedia e uno dei torturatori gli urla qualcosa e lo colpisce anche con degli schiaffi.

Le accuse che gli vengono contestate sono quelle di aver partecipato alla repressione
sanguinosa dei dissidenti (di cui sarebbe stato protagonista principale suo fratello Saif, capo tra l’altro dei servizi segreti); di aver ordito un complotto per l’uccisione di un ex calciatore libico nel 2005; di appropriazione indebita di beni quando era capo della federazione calcio della Libia.

Quanto lontane queste crudeli immagini dal suo arrivo in Italia ed alla festa della sua presentazione al castello di Torre Alfina, ospite di Luciano Gaucci, che gli consegna la maglia biancorossa con il numero 19 e la scritta “Saadi”... A Perugia scese all’Hotel Brufani con la moglie e la famiglia, le sue guardie del corpo, le sue auto e le moto potenti. Di calcio giocato ne fece vedere poco, anzi niente, sebbene lui ritenesse di essere un campione. Serse Cosmi, l’allenatore, gli concesse appena una comparsata di 15’ nel finale della partita Perugia-Juventus (di cui il libico era non solo tifoso ma socio). Fu anche punito con tre mesi di squalifica trovava in vacanze in Sardegna, convocò Bottini - suo barbiere di fiducia, con negozio in Corso Vannucci - per farsi fare barba e capelli. Altri tempi. Gheddafi passò poi all’Udinese e quindi alla Samp (senza mai giocare), per tornarsene infine nel suo paese.

Ora lo rivediamo nei momenti del dolore, persino torturato e seviziato. E un moto di compassione e di pietà ci colpisce, perché non si tratta così un uomo. Nessun uomo. Non solo perché ha comunque indossato la maglia del Grifo ed uno dei suoi figli é nato nel capoluogo umbro. Il mondo civile rifugge da simili torture. Ma in molti paesi, purtroppo il medio evo non é ancora passato.
Intanto la procura generale di Tripoli ha chiesto che vengano identificate le guardie che compaiono nel video per poter perseguire penalmente gli aguzzini del detenuto. Anche la missione Onu in Libia, tramite il suo portavoce, Samir Ghatas, ha espresso "sconcerto" per il drammatico episodio, aggiungendo che prenderà quanto prima contatti con le autorità per fare luce su quanto accaduto.

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