di Anselmo Pagani.

La pelle di colore olivastro, il vistoso naso aquilino causato da un incidente subito in età giovanile durante un torneo cavalleresco, che l’aveva reso orbo dell’occhio destro, le palpebre marcate e pesanti: Piero della Francesca ce lo presenta come una creatura della terra, senza alcun camuffamento.
Eppure, una certa aura di regalità, messa in risalto dell’elegante abito rosso e dal copricapo cilindrico dello stesso colore che si stagliano sull’azzurro del cielo che fa da sfondo, trasmette l’immagine di un leader carismatico, non privo di un suo fascino particolare e dallo sguardo benevolo da Signore vero, perché questo fu Federico da Montefeltro, duca di Urbino.
Federico nacque il 7 giugno del 1422 quando ormai il padre, il Conte Guidantonio, non ci sperava più perché il suo matrimonio era rimasto sterile per venticinque anni. Quel bimbo era però il frutto della fugace relazione di un uomo ormai anziano con una giovane nubile.
Sui primi anni di vita del futuro erede della Signoria di Urbino e Montefeltro la condizione di "bastardo", anche se legittimato, pesò tanto, ma non abbastanza da impedirgli di diventare uno dei protagonisti della storia italiana del XV secolo, sia come capo politico, che come uomo d’armi, attività che, grazie agli ingenti guadagni generati dalle condotte militari, gli avrebbe consentito di trasformare Urbino in un gioiello rinascimentale.
La sua non fu un’infanzia facile perché la seconda moglie del padre, Caterina Colonna, si comportò con lui alla stregua della matrigna cattiva di certe favole tristi, facendolo allontanare dalla Corte per il timore che insidiasse nei loro diritti successori i figli legittimi che sarebbero nati da lei.
Federico fu così affidato alle cure della vedova di Bartolomeo Brancaleoni, Signore di Sant'Angelo in Vado, mamma della piccola Gentile cui il pargolo fu promesso in sposo quando aveva soltanto tre anni d'età.
La futura suocera fu per lui la madre amorevole che non aveva mai avuto e che lo avrebbe cresciuto fino a quando a undici anni, giudicato pronto per affrontare la vita pubblica, venne inviato dal padre a Venezia.
In quella città iniziò il percorso formativo che lo portò poi a Mantova, alla Corte dei Gonzaga, dove studiò sotto la guida di Vittorino da Feltre, celebre umanista per il quale Federico avrebbe nutrito una profonda venerazione per tutta la vita.
Precoce in tutto, si sposò quindicenne con la sua Gentile, anche se ciò non gli avrebbe impedito di dare libero sfogo agli ardori giovanili con più mature “delicatissime et pietosissime donne".
Diciottenne, fu investito da Filippo Maria Visconti, duca di Milano, della prima condotta militare cui si dedicò con rara maestria e talento. Più tardi, in un turbinoso vortice di alleanze che si stringevano con la stessa rapidità con cui si disfacevano, iniziò a scontrarsi coi Malatesta, Sigismondo prima e Roberto poi, i Signori di Rimini che sarebbero sempre stati i suoi nemici giurati, cui poco a poco, in un susseguirsi di battaglie vinte e perse, complotti e dispetti reciproci, avrebbe tolto quasi tutto lo Stato, con le sole eccezioni di Rimini e Cesena.
La sua vita non fu certamente esente da ombre, in primis dal sospetto d’essere stato il mandante della congiura in cui nel 1444 perse la vita il fratellastro Oddantonio, succeduto al padre l'anno prima e fatto fuori per la sua politica fiscale oppressiva ed il brutto vizio di molestare le altrui signore.
Seppure non siano state mai trovate prove certe del suo coinvolgimento, gli indizi in tal senso furono però univoci, a partire dal fatto che già il giorno successivo al crimine Federico si fece trovare pronto alle porte di Urbino per entrare trionfalmente in città dove, anziché punire i rivoltosi, concesse un'amnistia generale, timoroso del fatto che qualcuno potesse parlare.
Inoltre prese (discretamente) parte all’organizzazione della Congiura dei Pazzi per disfarsi di Lorenzo de' Medici, suo pericoloso avversario.
Tuttavia, in tempi in cui si andavano definendo i concetti di condotta politica che qualche decennio più tardi il Machiavelli avrebbe descritto nel suo "Principe", il ricorso a metodi moralmente discutibili era giustificato dal fine superiore consistente nella volontà di procurarsi uno Stato e poi mantenerlo.
In ciò Federico riuscì perfettamente, grazie al suo acume politico ed alle capacità militari che gli permisero d’ingrandire di tre volte i confini dei suoi domini territoriali, tanto da meritarsi il titolo ducale conferitogli nel 1474 da Papa Sisto IV.
Il nostro era anche un amante del lusso e delle cose belle, non volendo che la sua città fosse da meno di Mantova e Ferrara, che fra i centri minori del Rinascimento erano i più fastosi.
Così, spendendo con grande prodigalità le fortune che guadagnava come capitano di ventura, ampliò ed abbellì Urbino con una grandiosa politica edilizia il cui risultato più eclatante è costituto dal Palazzo Ducale, eretto su progetto del dalmata Luciano Laurana: uno splendido e solido edificio a quattro piani fiancheggiato da due torri simili a campanili.
La civiltà urbinate divenne presto il prototipo stesso di quella rinascimentale, ben rappresentata dal suo principe ritratto intanto che legge un libro, col figlioletto che gli sta a fianco.
Alla sua corte furono di casa artisti come Piero della Francesca, il Perugino, Paolo Uccello, Melozzo da Forlì, Pedro Berruguete ed i migliori letterati del tempo. Collezionista instancabile, raccolse una biblioteca unica per i suoi tempi, che confluì circa due secoli più tardi in quella Vaticana costituendone il nucleo portante.
Il suo principale lascito spirituale ed umano è forse costituito, però, da quello scrigno quasi magico che è il suo “studiolo” privato ricavato al centro del Palazzo Ducale, con le pareti ricoperte da bellissimi intarsi in legno raffiguranti gli oggetti che gli erano più cari: le sue armi, i libri, gli strumenti musicali, insomma: lo spaccato d’una vita spesa all’insegna della saggezza e della moderazione in campo politico e militare, ma soprattutto nel segno della cultura e della sua diffusione.

Immagine: “Ritratto di Federico da Montefeltro” di Piero della Francesca, 1474 circa, Galleria degli Uffizi, Firenze.
 

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