di Maria Pellegrini.

Questa famosa sentenza latina indica l’inclinazione seriosa dei latini che apprezzavano nell’uomo la “gravitas”, la severità di atteggiamenti lodati da Catone il Censore. Naturalmente ciò non significa che l’uomo romano “non ridesse mai”. Ma siamo autorizzati a credere che il riso liberatorio, come noi l’intendiamo, non si addicesse al comportamento del funzionario dello stato romano.

Tuttavia poiché riso e il pianto sono aspetti universali della vita umana, sarebbe sciocco ipotizzare che i latini non ridessero e non piangessero, a differenza di tutti gli altri uomini di ogni tempo. Le riserve sull’inclinazione al riso dei latini sembrano giustificate anche al di fuori della sfera degli “uomini illustri”, cioè le troviamo anche tra il popolo urbano e fin nella “plebaglia”. Se è vero che ogni letteratura rispecchia inevitabilmente aspetti del carattere di una nazione, sembra di poter cogliere non solo nella letteratura, ma anche nella vita quotidiana degli uomini, qualcosa di estraneo alla gioia che spesso è la fonte del riso. Vi si coglie al contrario una indubbia cupezza, che è forse il frutto di una continua pratica delle armi e della pressoché ininterrotta vicenda delle guerre civili.

Insomma si può presumere che un popolo perennemente in guerra - e in guerre spietatamente imperialiste -, possa difficilmente essere considerato incline al riso. Ancora più sembra estraneo al costume latino quel dono ineffabile costituito dalla variante gentile del riso, cioè il sorriso. Un esempio: nell’intero racconto dell’Eneide, il protagonista Enea una sola volta sorride (V, 358). Quindi, senza voler cadere nella ridicola ipotesi che i latini non ridessero, non è azzardato ritenere che il riso non fosse una manifestazione frequente del costume e del sentimento romano antico.

L’unico autore dedito al sacro mestiere di suscitare più che il riso la risata, è Plauto. Ma anche questo riso era, più che liberatorio, sguaiato, e talvolta canagliesco, non diversamente da quello degli spettatori del circo impietosamente divertiti ed eccitati dalla truculenza dello spettacolo. Oggi noi non comprendiamo questo, perché in Plauto giustamente ma molto intellettualisticamente, cogliamo soprattutto la genialità linguistica e metrica, che dagli antichi spettatori veniva goduta in modo irriflesso nel ritmo scatenato delle commedie.

Chi volesse poi parlare di riso a proposito del “Satiricon” petroniano, sarebbe lontanissimo dal vero, giacché in tale opera geniale aleggia al contrario un senso di funereo disfacimento, e semmai di crapula filosofeggiante e al contempo lussuriosa. Chi volesse poi assumere la satira come una manifestazione letteraria suscitatrice di riso, cadrebbe di nuovo in errore. Il massimo poeta satirico latino, Giovenale, è di una acrimonia così violenta da suscitare nel lettore più che la gioia del riso, l’angoscia di quella stessa ossessione moralistica che dovette tormentare il poeta prima che i suoi lettori. Di Lucilio non abbiamo abbastanza per poterne giudicare con completezza l’ispirazione, ma la sua appartenenza al raffinato circolo degli Scipioni ci autorizza a ritenere che più che a suscitare il riso, la sua satira avesse il carattere di un garbato tentativo di “correggere” i costumi, ma con moderazione e che Lucilio stesso passasse da questo intento etico a un personale e volubile divertimento.

In Orazio accanto a satire gradevolmente emblematiche - e perciò talvolta banali -, troviamo spunti davvero gratificanti che suscitano il sorriso e che probabilmente facevano già sorridere il poeta e gli amici che le ascoltavano. Basta pensare al felicissimo e arcinoto esordio Ibam forte via Sacra (Me ne andavo per caso lungo la via Sacra) di cui si è scritto su Umbrialeft con il titolo La bonaria ironia del poeta Orazio nel racconto di una giornata nera. 14/07/2019. 

Del rapporto fra Persio e il riso francamente sembra non si possa davvero parlare.

Il riso di Marziale? È vero, alcuni “fulmini al termine” (“fulmina in clausola”) sbalordiscono per la loro icasticità anche noi moderni. Ma tale sbalordimento non si muta né in riso né in sorriso, bensì in raggelata ammirazione per la straordinaria perfidia creativa di questo spagnolo venuto a Roma, ma non nel solco della grande famiglia ispanica dei Seneca, ma relegato in una condizione di acre subalternità cui l’epigramma forniva il conforto di una rancorosa vendetta sociale.

Così raro dunque e difficile il riso dei romani? Sembra proprio di sì. Dono dell’intelligenza latina possiamo considerare, più che il riso, il sorriso quando ci accade raramente di coglierlo nella letteratura. L’abbiamo trovato in Orazio; lo ritroveremo di lì a poco in alcuni degli “Amores” ovidiani, laddove il poeta si abbandona, oltre che all’estro della sua inventiva inesauribile, alla sottile e aristocratica ironia di cortigiano e amante privo di inibizioni, ma anche povero di ideali. Povertà che immergerà Ovidio in una sorta di involontaria eresia nei confronti dell’accigliato moralismo augusteo, e provocherà la sua rovina. Fu infatti mandato in esilio. Un sorriso involontariamente suicida quindi.

Nota: Nell’immagine c’è la statua di Orazio situata a Venosa, paese dove nacque.

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