Nessuno di noi, eccetto forse qualche folle, vorrebbe tornare indietro, ai tempi in cui si viveva meno, peggio e con possibilità immensamente inferiori rispetto a quelle di cui godiamo oggi. 
Nessuno di noi vorrebbe tornare indietro, anche perché crediamo che sinistra e conservazione costituiscano una contraddizione in termini e che il cambiamento sia sempre necessario, fisiologico e indispensabile per crescere e costruire insieme il futuro. A patto che si comprenda che il cambiamento non è neutro e che non sta scritto da nessuna parte che sia per forza positivo, anzi. 
Prendete il M5S e la sua trasformazione in partito senza dichiarare tale scelta né confrontarsi attivamente con gli iscritti e, in una certa misura, anche con gli elettori, con quanti lo avevano sostenuto proprio perché si presentava come un "non partito" con un "non statuto", una "non struttura" e una vasta serie di negazioni che adesso, costretti a fare i conti con gli equilibri e i compromessi che inevitabilmente la sfida del governo reca con sé, li sta conducendo al disastro. 
Prendete il PD dei rottamatori e dei nuovisti: ha talmente fallito che si è rivelato necessario, di recente, un cambio di rotta formale e sostanziale, con l'elezione di un segretario, Zingaretti, che è l'antitesi, se non addirittura la nemesi, del predecessore. 
Quanto alla Lega, se oggi siamo arrivati a rimpiangere Bossi, significa che questo Salvini non è proprio un personaggio esaltante e, sopratutto, che preferivamo persino il dito medio, gli slogan contro Roma, il folklore di Pontida e l'atavico razzismo del profondo Nord, un po' grezzo e terribilmente ingrato verso i meridionali che andarono a lavorare con coraggio e dedizione nelle tante fabbriche sorte nel dopoguerra, al celodurismo in salsa lepenista del successore, sostenitore della galassia nera che sta appestando l'Europa e che rischia, in caso di buon risultato alle prossime Europee, di mandarla in frantumi. 
Sono i primi tre esempi che mi sono venuti in mente per suffragare la tesi secondo cui non è detto che il nuovo e il cambiamento siano per forza forieri di buone notizie e per indurre chi legge a coltivare sempre un aspro spirito critico e a formarsi una coscienza civica molto forte per resistere alla marea montante dell'odio e alla propaganda ferina che la alimenta ad ogni latitudine. 
Ciò premesso, vi siete mai chiesti per quale motivo qualunque episodio urticante e controverso del passato susciti ancora oggi un dibattito furioso, e non solo in Italia? Che si tratti della Vandea francese o, per venire a casi italiani, del sequestro Moro, del caso Battisti, della ragazzina eritrea acquistata da Montanelli durante la Guerra d'Abissinia, di Mussolini o di qualunque altra vicenda occorsa durante il "Secolo breve". Vi sia mai chiesti le ragioni di tutto questo? Io comincio a pensare che per il Novecento valga lo stesso discorso che Winston Churchill era solito fare a proposito dei Balcani, ossia che "producano più storia di quanta siano in grado di consumarne", innescando conflitti devastanti che per ben due volte, sia pur con conseguenze assai diverse, hanno insanguinato il suddetto secolo, all'inizio e alla fine. 
Al che, mi vien da dire che non ha tutti i torti il professor Cardini quando, mettendo in discussione la tesi di Hobsbawm, asserisce che il Novecento non è stato affatto un secolo breve e che, al contrario, duri tutt'ora, al punto che siamo totalmente incapaci sia di storicizzarlo che di superarlo e aprire una storia diversa, a quasi vent'anni dall'inizio del nuovo secolo. 
Nonostante il Duemila sia cominciato ormai da diciannove anni, ci troviamo infatti a ragionare, in tutto l'Occidente, ancora sulle basi del secolo precedente, non riuscendo a uscire da un confronto che sta diventando una prigione e non riuscendo a liberarci dai nostri demoni, dalle nostre insicurezze e dai punti di contatto con una realtà che non esiste più ma continua a condizionarci. Perché accade? La mia risposta è atroce ma, forse, non del tutto infondata: perché il Duemila, spiace dirlo, ma non esiste, non è mai iniziato ed è come la Seconda Repubblica, un'appendice purulenta della Prima, con ancora più difetti e senza i suoi innegabili pregi. 
Il Novecento è stato un secolo barbaro, feroce, dominato da ingiustizie e totalitarismi, colpi di Stato e milioni di morti: una stagione che andrebbe compresa  consegnata alla storia, analizzata e rinnegata al tempo stesso, un periodo oscuro e tremendo nel quale spesso si è perso l'uomo. Eppure oggi quasi lo rimpiangiamo, perché accanto a tutto questo c'è stata anche la nascita del ceto medio, il grande giornalismo, i progressi scientifici e l'emancipazione delle donne, i movimenti pacifisti e femministe, la nascita dell'Unione Europea e la fine del colonialismo; insomma, un Secolo nel suo insieme straziante ha avuto anche molti aspetti positivi e degni di essere menzionati. Tuttavia, non è per questo che oggi proviamo nostalgia verso di esso bensì perché nel Novecento, checché se ne dica, a scontrarsi erano uomini ricchi di idee e di pensiero, talvolta anche barbaro ma comunque forte e convincente, mentre adesso ciò che manca di più all'Occidente è proprio un'ideologia o, meglio, una serie di ideologie, destinate anche a scontrarsi ma comunque a dar vita a un dibattito serio e costruttivo. Ci manca un manifesto di valori, dei princìpi e delle linee guida, ossia gli elementi base senza i quali la politica stessa perde di senso.
Prendiamo l'antifascismo, valore sacro e anima della nostra Costituzione. L'antifascismo che vedo praticato oggi a sinistra è la miglior garanzia di ritrovarci al governo la peggior destra possibile, in quanto è per lo più strumentale, di maniera, stucchevole, celebrativo e, pertanto, assolutamente inutile e, anzi, controproducente. Il punto, in merito, non è interrogarsi se abbia fatto o meno cose buone perché negare che ci siano stati anche dei passi avanti, tante grandi opere di cui tutt'ora usufruiamo e che abbia rimesso in piedi un'Italia uscita in frantumi dalla Prima guerra mondiale significa negare le ragioni dello sconfinato consenso che esso ha avuto per vent'anni, ossia non comprenderne le radici e porre i presupposti affinché ritorni, in forme diverse rispetto ad allora ma non meno pericolose e pervasive. Un antifascismo che poggi su basi solide e incontrovertibili dovrebbe porsi un'altra domanda, ossia: ammesso che negare le realizzazioni di un regime durato vent'anni non avrebbe alcun senso, saremmo disposti, in nome di esse, a rinunciare alla nostra libertà di pensiero e d'espressione, al confronto politico, alla sacra istituzione del Parlamento e alla battaglia di idee che innerva ogni vera democrazia? Se la risposta è no, e ovviamente deve essere no, siamo al cospetto di un antifascismo maturo, consapevole, analitico, lucido e, soprattutto, convincente, senza caricature, senza minimizzazioni e senza quella carica di estremismo e volgarità che lasciamo volentieri agli indegni sostenitori di un orrore di cui, probabilmente, essi stessi sanno poco o nulla. 
Prendiamo poi il femminismo, altro cardine del pensiero progressista che, tuttavia, a sinistra vedo espresso in forme che non mi convincono e, anzi, mi preoccupano. 
Ho sempre ritenuto che l'emancipazione della donna, l'affermazione dei suoi diritti, della sua dignità e dell'inviolabilità del suo corpo nonché l'abolizione di una serie di norme o di consuetudini aberranti come il delitto dolore o il matrimonio riparatore abbia rappresentato una delle più importanti forme di crescita valoriale del secolo scorso. E ritengo altresì che le sfide per eliminare le immonde ingiustizie di cui le donne sono tuttora vittime interroghino innanzitutto noi uomini, la nostra coscienza e il nostro senso della misura e del limite. Ritengo che non possa esserci alcuna giustificazione nei confronti di qualsivoglia forma di violenza, di sopruso, di arbitrio o di discriminazione, che pratiche come le molestie, gli stupri e le dimissioni in bianco, sia pur diverse fra loro, costituiscano una forma di jihadismo e che l'immaginario del maschio alfa debba essere contrastato con il massimo vigore e con una presa di distanza netta da parte di tutti gli uomini, la stragrande maggioranza, che vedono nella donna una compagna, una moglie, un'amica o comunque una persona meritevole del massimo rispetto e non un oggetto da possedere e utilizzare a piacimento. 
Ciò detto, bisogna stare attenti anche alla caccia alle streghe e al maccartismo sessuale che si sta diffondendo, specie a sinistra ma anche nel mondo della cultura e nel cinema, e che reagisce a uno stereotipo inaccettabile con uno stereotipo altrettanto inaccettabile, trasformando ogni uomo in un mostro e ogni complimento, sia pur dolce, affettuoso e per nulla lesivo della dignità umana, in una forma di molestia o in qualcosa di peggio. Non sarà la sete di potere di poche donne desiderose unicamente di visibilità e di consumare le proprie vendette a garantire a milioni di donne sfruttate o vittime di abusi di ogni sorta il riscatto che meritano.  
Le battaglie da compiere sono tante: dalla parità di salario alla parità di diritti, dal medesimo accesso ai posti di potere al riconoscimento del valore aggiunto incarnato da una categoria che si sta facendo strada grazie alle proprie conoscenze e competenze, fino all'introduzione dei congedi parentali e a una maggior tutela della maternità prima, durante e dopo la nascita del bambino. L'unico errore da non compiere mai è quello delle manifestazioni smodate, degli eccessi, verbali e non solo, e del razzismo al contrario, anche perché, per tutta risposta, si rischia di avere il trionfo della parte più retriva della nostra società e della pessima politica che ne è espressione e che vorrebbe attentare a conquiste come il divorzio, l'aborto e altri capisaldi del nostro stare insieme. 
Quanto alla cosiddetta pratica del "femminicidio", ovviamente esecrabile, va detto che, nel caso specifico, tutti gli assassini sono uomini ma non tutti gli uomini sono assassini o potenzialmente tali, altrimenti è il concetto stesso di amore, la passione e la bellezza che da esso deriva ad essere messo gravemente in discussione, con ripercussioni tragiche per la società nel suo complesso. 
Prendiamo, infine, la redistribuzione della ricchezza, elemento imprescindibile per una sinistra degna di questo nome nonché argomento di studio ed elaborazione culturale di alcuni tra i più importanti economisti al mondo. 
Sostenere che non possano esistere determinate disuguaglianze, che un dirigente non possa percepire un reddito tremila volte superiore rispetto a quello di un operaio e che la tassazione debba essere resa più equa a livello globale, in quanto l'acquisizione vorace della ricchezza e la sua concentrazione in pochissime mani stanno conducendo il pianeta nell'abisso, è doveroso ed è una delle ragioni costitutive del mio impegno civile. 
Sostenere, invece, come fa una parte della sinistra, purtroppo egemonizzata ormai dalle degenerazioni pauperiste tipiche del grillismo, che il nemico sia la ricchezza anziché la povertà significa rinnegare la socialdemocrazia di Olof Palme, cioè condannarsi all'irrilevanza, spianando la strada a chi della lotta alle disuguaglianze non solo non se ne preoccupa minimamente ma le considera addirittura un fatto positivo.
Ritengo, al pari di García Márquez, che la sinistra sia la sola forma di promozione umana possibile, specie di questi tempi, ma una sinistra ben diversa da quella che vediamo all'opera alle nostre latitudini. Una sinistra alla Corbyn e alla Sanders, senza dubbio, la sinistra della Ocasio-Cortez e di Ilhan Omar, la sinistra di Marielle Franco, l'attivista brasiliana di cui ricorre il primo anniversario dell'assassinio, una sinistra pronta a battersi, ovunque, per i poveri e per gli ultimi, contro ogni ingiustizia, ogni sopruso e ogni vergognosa lesione arrecata alla dignità e ai diritti delle persone. Di questa sinistra il mondo ne avverte un disperato bisogno. Dall'altra, quella finta, che terminata una manifestazione in cui non crede va al bar a consumare uno Spritz e ad esprimere la propria arrogante quanto inesistente superiorità, di questa sinistra fasulla, menzognera e capace di trasformare persino le battaglie più nobili in comizi di basso livello per tentare di ingannare i pochi elettori rimasti speriamo di liberarcene, democraticamente, alla svelta perché altrimenti non riusciremo a restituire all'Occidente, e alla nostra Italia in particolare, quelle utopie, quei sogni e anche quegli scontri valoriali che soli ci potrebbero consentire di consegnare il Novecento ai libri di storia e di aprire una pagina nuova. 
Bisogna liberarsi di queste catene e di queste zavorre, sconfiggendo il tempo del nulla nel quale siamo immersi ed evitando che ogni discussione si esaurisca in un centinaio di caratteri su Twitter e in uno scontro fra pariolini spocchiosi che di quel nulla ne sono la rappresentazione emblematica. In caso contrario, non si salverà nessuno.
 

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