di Maria Pellegrini.

Il mondo romano, tra il 264 e il 133 a. C. conquista le terre bagnate dal Mediterraneo e si afferma come una massima potenza, entra in contatto con le civiltà greche e con l’Oriente e si apre a nuove prospettive di arricchimento e di trasformazione sociale. Parallelamente al suo espandersi, attraverso la voce di importanti autori latini veniamo a conoscenza delle mutate abitudini di vita di quella parte della società privilegiata per nascita, cariche politiche, oppure per censo, frutto di affari della nuova classe imprenditoriale (gli equites) che si sta affermando. La ricchezza e il benessere sono però concentrati nelle mani di pochi mentre la gran parte dei cittadini versa in uno stato vicino all’indigenza, per non parlare del destino degli schiavi considerati una merce, un patrimonio, uno strumento di lavoro; nelle grandi tenute agricole le loro condizioni di vita sono infime. Catone il Censore (234-149 a.C.) nel trattato De agri cultura, per istruire il suo fattore sul companatico riservato agli schiavi così lo esorta: «Metterai da parte le olive cadute a terra, quante più vuoi, e anche le olive mature da cui sarebbe potuto venire poco olio. Usane con parsimonia. Una volta consumate le olive, darai agli schiavi salsa di pesce e aceto». Dispone con altrettanta parsimonia la quantità di pane, vino, abiti da concedere agli schiavi, e dà cinici avvertimenti per la loro vendita all’asta insieme a «carri vecchi, ferraglie in disuso», quando fossero divenuti «anziani e malaticci». (I, 58)

Anche al tempo di Cesare (I sec. a.C.) la plebe urbana vive in condizioni di miseria estrema, ammassata in casamenti alti una ventina di metri, costruiti senza alcuna cura, male illuminati, sempre col pericolo di crolli. Non esistono condutture né vi è un collegamento tra il mirabile sistema di fognature e le abitazioni comuni. Non ci sono pompieri e quando avvengono gli incendi, che sono frequentissimi, le vittime perdono tutto anche la vita. Ne approfittano i ricchi che acquistano a basso prezzo quegli immobili in rovina per poi ricostruirli e riaffittarli a prezzi superiori.

Dalla lettura di passi di scrittori latini si può notare un disprezzo per coloro che sono in uno stato di povertà. Cicerone è molto vicino ad associare gli egentes (i bisognosi) con i perditi (i criminali), a ritenere la povertà quasi «un crimine», a considerare invece i ricchi come coloro «le cui fortune sono state accresciute e procurate dal favore degli dei», mentre «la plebe miserabile e affamata succhia il sangue alle casse dello stato» e «gli artigiani e bottegai sono feccia come tutte le occupazioni manuali». Infatti nel parlare di quali professioni o mestieri siano da reputarsi nobili o ignobili Cicerone ha parole di biasimo per esattori e usurai, afferma poi che «tutti gli artigiani esercitano un mestiere volgare: non c’è ombra di nobiltà in una bottega» e citando il commediografo Terenzio disprezza tutti quei mestieri che servono al piacere: «pescivendoli, macellai, cuochi, salsicciai, pescatori». Un suo interlocutore vuole che si aggiungano «i profumieri, i ballerini e tutta la masnada dei mimi e delle mime» (De officiis 1, 150).

Nell’Eneide di Virgilio che vive nell’età di Augusto, primo imperatore romano, leggiamo una frase divenuta celebre: «a cosa non spingi gli animi dei mortali, o esecrabile cupidigia dell’oro!» (III, 57). Il poeta si esprime così dopo aver ricordato la triste fine del figlio di Priamo, Polidoro, ucciso da Polimestore re dei Traci al quale era affidato, per impossessarsi del tesoro che il giovane porta con sé.

Non solo Virgilio ma anche altri poeti di età imperiale condannano il desiderio di ricchezza, ma la società romana aspira sempre più a entrare in possesso di nuovi beni; coloro che appartengono a classi privilegiate s’impegnano per diventare più ricchi e i più ambiziosi vogliono entrare in politica e hanno bisogno di molto denaro per le campagne elettorali, per poterlo elargire ai clientes, per offrire banchetti e spettacoli, costruirsi ville sontuose, oggetti di lusso che tutti possono ammirare, e acquistare merci che arrivano nelle città da ogni parte dei luoghi conquistati. Uomini e donne sono sempre più lontani dagli ideali di sobrietà e semplicità dei primi anni della repubblica.

Orazio nella satira sull’incontentabilità umana, che è una sorta di manifesto della sua etica, critica l’accumulo di denaro alle quale si dedica chi è mai sazio di ciò che possiede tanto da dire: «Niente è di troppo, perché quanto hai, tanto vali». Alla fine il poeta esplode con questo consiglio: «Smettila con questa avidità: / più ne hai, tanto meno devi temer la miseria; / ottenuto quanto desideravi, mettiti in pace». (I, 92-94)

Rivolgendosi a chi ama accumulare denari ma teme i ladri «sui sacchi ammucchiati da ogni parte ci passi anche la notte a bocca spalancata… vegli notte e giorno e ti angusti per ladri malvagi e servi che in fuga non rubino tutto: questo ti piace?» (I, 70 sgg.). 

La ricchezza è però necessaria per partecipare alla vita pubblica e si diffonde l’idea che il denaro sia fatto per essere speso. I poeti descrivono l’avaro con tratti caricaturali. Anche Orazio in una epistola condanna chi accumula danaro senza spenderlo: «Che senso ha la ricchezza se non sai goderne? / Chi, pensando all’erede, risparmia e vive come un taccagno / è pazzo da legare» (Ep. 5).

Nelle sue opere abbiamo una ricca documentazione relativa ai ceti subalterni, ai poveri, agli schiavi, nei confronti dei quali però esprime un giudizio non diverso dalla mentalità dominante. Lo schiavo è un bene, una “cosa”, uno strumento di lavoro dotato di voce, è una ricchezza per i grandi latifondisti, come Catone il Censore, Varrone, Columella.

Roma diventa in età imperiale con i successori di Augusto una città che offre possibilità di migliorare la propria condizione ma a pochi riesce. Petronio, autore vissuto nell’età di Nerone nel Satyricon, primo romanzo della letteratura latina, presenta un campione di quei fortunati che sono riusciti ad arricchirsi: Trimalcione, un liberto che vuole stupire i suoi ospiti con una cena dove offre un’interminabile serie di portate, una più stravagante dell’altra, presentate con una coreografia teatrale. Durante la famosa e lussuosa Cena (un documento prezioso per comprendere l’ambiente degli arricchiti del I secolo d. C.) si vanta di essere passato dalla condizione misera di schiavo a quella di ricco possidente, A gran voce costringe i suoi ospiti a sentire a quanto ammontano le sue proprietà, e vuole che si scriva anche sulla sua tomba: «Venne su dal niente, lasciò trenta milioni di sesterzi». Conclude rivolgendosi ai suoi ospiti con una massima di una incisività straordinaria nella sua brevità: «Prestatemi fede: hai un centesimo, vali un centesimo; hai di più, di più sarai stimato». (Cap. 77, 6).

Lo sguardo di Petronio è ironico e pungente sull’ascesa sociale dei liberti, che esibiscono sfacciatamente e con cattivo gusto la loro ricchezza in contrato con la povertà della gente comune. Infatti tra i commensali di Trimalcione, circolano discorsi che denunciano l’altro aspetto della società. Parla un tale di nome Ganimede:

«Nessuno si cura della carestia che mozzica. Oggi perdio non ho potuto trovare un boccone di pane… Per parte mia mi sono già mangiato i quattro stracci che avevo, e se continua la carestia vendo pure le mie catapecchie». (cap. 44, 2)

Seneca, filosofo e politico romano, costretto a darsi la morte per ordine di Nerone, riconosce l’importanza della ricchezza per un saggio: «non c'è dubbio che si presentino al saggio maggiori occasioni di sviluppare le sue attitudini nella ricchezza che nella povertà. Nella povertà l’unica possibile virtù sta nel non farsi piegare o schiacciare; nella ricchezza, invece, hanno campo libero temperanza, generosità, accortezza, ordine e magnificenza». E aggiunge «le ricchezze sono gradite ai saggi come un vento favorevole ai naviganti, come una giornata di sole nel freddo dell'inverno» (De vita beata, 23)

Anche negli Epigrammi di Marziale, vissuto nell’età di Domiziano, leggiamo che il povero non ha speranza di nessun miglioramento nella scala sociale, rimarrà sempre povero:

«Se povero tu sei, Emiliano, sempre povero resterai. / Le ricchezze ora non si danno che ai soli ricchi», (V, 81.) che cercano sempre di procurarsi altri soldi: «Africano è ricco sfondato, ma continua ad andar a caccia di testamenti. / La sorte, a molti, dà troppo. A nessuno dà abbastanza» ( ) Il povero Cotta invece che ha un solo schiavo è descritto con ironia, non può permettersi neppure nuovi calzari perciò «ha cominciato andare fuori scalzo» (XII, 87).

Anche ritenendo i personaggi descritti da Marziale frutto della sua fantasia, questi indirettamente ritraggono una Roma dove i ricchi sono sempre più ricchi e per i poveri non c’è alcuna speranza.

Il poeta che vive offrendosi come cliens a qualche personaggio importante, quando un amico venuto in città con tante speranze poi deluse, gli rivela che sarebbe disposto a mettersi a disposizione di un potente, risponde amaramente che questa condizione: «sfama a mala pena tre o quattro persone, gli altri sono pallidi di fame» (III 38). Quanto sia umiliante essere un cliente lo dimostra in questi suoi versi:

«Tu mi dai tre denari, Basso, e vuoi che con la toga, / la mattina io sorvegli l’atrio della tua casa/ che stia attaccato al tuo fianco, che preceda la tua lettiga, / che visiti con te più o meno dieci vedove. / La mia toga è logora, è rovinata, non esiste più / ma non posso comprarla, Basso, con i tre denari, che mi dai».

Sappiamo da una satira di Giovenale, poeta che pubblicò le sue satire dopo la morte di Domiziano per timore di suscitare l’ira dell’imperatore, che i poveri sostavano per lo più presso l’ingresso dei templi, sui ponti e alle porte cittadine: tutti luoghi molto frequentati, dove i passanti non li potevano evitare. Una sorta di colonia di poveri era concentrata ad Ariccia, intorno al santuario di Diana, dove la via Appia era in salita. I carri in transito, costretti a rallentare, erano subito circondati da questi derelitti che chiedevano l’elemosina ai passeggeri che mandavano baci con le mani a chiunque donasse loro qualcosa. (IV. sgg.117)

Sebbene nel mondo antico, sia greco sia romano, filosofi e poeti prendano spesso le distanze dall’idea del desiderio di accumulare beni materiali, il sogno della ricchezza sarà sempre presente nell’animo di chi vive nelle ristrettezze o nella miseria.

Nota: nell’immagine affresco pompeiano con ricco banchetto

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