di Maria Pellegrini

 

La stridente contraddizione fra la morte per fame o malnutrizione di milioni di abitanti del terzo mondo e l’eccesso e lo spreco di cibo nelle società tecnologicamente ed economicamente più sviluppate, mi ricorda con un balzo all’indietro di secoli - forse per deformazione professionale - la diversità tra il misero pasto della plebe romana e i cibi elaborati, speziati ed esotici posti sulle mense degli aristocratici e degli arricchiti a partire dal II sec. a.C. quando Roma, sconfitta Cartagine, si afferma come massima potenza del Mediterraneo occidentale ed entrata in contatto con le civiltà greche e con l’Oriente, si apre a nuove prospettive di arricchimento e di trasformazione sociale. Parallelamente all’espandersi dello stato e della potenza romana, attraverso la voce di importanti autori latini veniamo a conoscenza delle mutate abitudini alimentari di quella parte della società privilegiata per nascita, cariche politiche, o per censo, frutto di affari della nuova classe imprenditoriale (gli equites) che si stava affermando.

La ricchezza e il benessere erano però concentrati nelle mani di pochi mentre la gran parte dei cittadini versava in uno stato vicino all’indigenza, per non parlare del destino degli schiavi considerati una merce, un patrimonio, uno strumento di lavoro. Avevano condizioni di vita infime soprattutto quelli delle grandi tenute agricole. Catone il Censore (234-149 a.C.) nel trattato “De agri cultura”, per istruire il suo fattore sul companatico riservato agli schiavi così lo esorta: “Metterai da parte le olive cadute a terra, quante più vuoi, e anche le olive mature da cui sarebbe potuto venire poco olio. Usane con parsimonia. Una volta consumate le olive, darai agli schiavi salsa di aceto”. (I, 58). Dispone con altrettanta parsimonia la quantità di pane, vino, abiti da concedere agli schiavi, e dà cinici avvertimenti per la loro vendita all’asta insieme a “carri vecchi, ferraglie in disuso”, quando fossero divenuti “anziani e malaticci”(II, 7).

Anche al tempo di Cesare (I sec. a.C.) la plebe urbana vive in condizioni di miseria estrema, ammassata in casamenti alti una ventina di metri, costruiti senza alcuna cura, sempre col pericolo di crolli e sprovvisti di cucine adeguate, mentre i ceti privilegiati sono abituati a cene e conviti, anche se ancora non alberga in essi il cattivo gusto, la rozzezza degli ospiti e degli anfitrioni. Il convito è ancora l’incontro piacevole di amici per conversare e godere di gradevole cibo e ottimo vino in un’atmosfera elegante ed elitaria come si legge in un carme di Catullo (c. XIII). Mezzo secolo dopo, il tema dell’invito a una cena rallegrata da semplice vino, lo troviamo anche in un carme di Orazio, poeta augusteo: “In modesti bicchieri ti offrirò / un comune vinello di Sabina/ che io stesso ho riposto e sigillato/ in un'anfora greca, o Mecenate”. (I, 20) Comincia tuttavia a serpeggiare in Orazio il disgusto per l’eccesso e la priorità data al piacere del cibo e alla ricchezza e la sua voce si leva per consigliare la misura in ogni scelta della vita (“modus in rebus”). In una delle sue “Satire” elogia una vita frugale, un pasto semplice che ha il privilegio di non essere dannoso alla salute: “Ad alleviare i morsi della fame bastano pane e sale. Solo uno stomaco che non è avvezzo ai digiuni disprezza i cibi comuni” e poi rivolto a un crapulone: “Quanto la varietà di cibi sia nociva per l’uomo lo capirai/ se ripensi al giorno in cui hai ben digerito un alimento  semplice./Se invece mescoli bollito, arrosto, molluschi e tordi, /queste delizie si mutano in fiele/ e la digestione porta  scompiglio nel tuo stomaco” (II, 2).

Nonostante si tenti di moralizzare i costumi con leggi contro il lusso, persiste la ricerca dei piaceri della vita e di ricche libagioni. Al tempo di Tiberio, successore di Augusto, vive Apicio (14-37 d.C.), un patrizio gaudente e buongustaio, appassionato di particolarità gastronomiche, noto per un ricettario pervenuto non nella struttura originaria, nel quale si deducono le sue predilezioni per la selvaggina esotica; intratteneva infatti i suoi ospiti offrendo il pappagallo o i fenicotteri arrostiti, l’utero di scrofa ripieno, ghiri farciti.

Per gli eccessi e i fasti dei lussuosi conviti di età imperiale e per l’abilità dei cuochi romani - che nulla ha da invidiare ai moderni chef in bella mostra a ogni ora del giorno sugli schermi della televisione - dobbiamo ricorrere ancora a autorevoli scrittori latini: Petronio, Seneca, Svetonio.

Petronio, di età neroniana, nel suo “Satyricon” dà puntuale testimonianza del cattivo gusto degli arricchiti nella celebre descrizione della “Cena” offerta da Trimalcione, un liberto che vuole stupire i suoi ospiti con un’interminabile serie di portate, una più stravagante dell’altra, presentate con una coreografia teatrale. Leggiamone un passo: “ecco arriva Trimalcione, portato a suon di musica… Al dito mignolo della mano sinistra ha un anellone dorato, nell’ultima falange del dito seguente un anello più piccolo, d’oro massiccio... E per non vantarsi solo di queste ricchezze, denuda il bicipite destro adorno di un bracciale d’oro... Intanto è portato un vassoio con sopra una cesta contenente una gallina di legno ad ali spalancate a cerchio, nella posizione consueta quando covano le uova. Lo abbordano subito due schiavi e si danno a frugare tra la paglia, ed estratti un uovo di pavone dopo l’altro ne fanno omaggio ai convitati. Trimalcione spiega: ‘Amici, ho fatto mettere sotto la gallina uova di pavone. Ma ho paura che ci sia già dentro il pulcino. A ogni modo proviamo se si possono ancora succhiare’. Ci vengono distribuiti dei cucchiaini di non meno di mezza libbra, e rompiamo quelle uova rivestite di pasta frolla. Io quasi butto via la mia parte. Ma poi, come sento un convitato che là è un abitué: ‘Qui ci deve essere un non so che di buono’, faccio un sondaggio con la mia mano e ci trovo un beccafico ben grasso dentro un tuorlo pepato”. (c. 32, 33) I maestri dell’arte culinaria del tempo riuscivano a dare ai piatti un aspetto diverso da quello che ci si poteva aspettare, imbandendo ad esempio carne di maiale preparata in modo da sembrare pesce o selvaggina, come si legge anche in un altro passo della “Cena” petroniana.

Ma tra i commensali di Trimalcione, “clientes” del munifico ospite, circolano discorsi che sono in contrasto con la sfacciata esibizione di ricchezza e denunciano l’altro aspetto della società. Parla un tale di nome Ganimede: “Nessuno si cura della carestia che mozzica. Oggi perdio non ho potuto trovare un boccone di pane. La siccità non finisce mai! è già da un anno che siamo affamati. Gli venga un colpo agli edili che intrallazzano coi fornai: ‘Aiutami tu che t’aiuto io’. E intanto il popolino tribola, ché per questi ganascioni è sempre carnevale… Ahiahi, ogni giorno peggio! Questo paese cresce all’ingiù, come la coda d’un vitello. Ma perché dobbiamo avere un edile che non vale un cavolo, e gli sta più a cuore un quattrino che la nostra pelle? E così a casa lui scialacqua, e in un giorno piglia più soldi di quanti ce n’ha un altro nell’intero patrimonio… Per parte mia mi sono già mangiato i quattro stracci che avevo, e se continua la carestia vendo pure le mie catapecchie”.(c. 44)

Se Petronio narra disincantato e ironico, il contemporaneo Seneca critica la sregolatezza dei costumi, attribuendola alla crisi morale della società, e anche alla perdita della antica parsimonia nelle abitudini alimentari. Così esplicitamente esclama: “O miserabili quelli il cui palato non è stuzzicato che dai cibi più costosi! Costosi per la loro rarità e per la difficoltà di procurarseli. Ma se tutta questa gente volesse tornare alla ragione, che bisogno c'è di tante arti al servizio del ventre?Perché devastare tante foreste? Perché scandagliare il fondo del mare? Dappertutto si trovano cibi che la natura ha distribuito in tutti i luoghi”. (“Consolatio ad Helviam matrem”, 10, 5).

Mentre la plebe fatica a trovare cibo con cui sfamarsi, nei palazzi imperiali si gozzoviglia. Svetonio, di età più tarda, nelle biografie dei primi dodici imperatori, documenta che Nerone “fa durare i suoi banchetti da mezzogiorno a mezzanotte” e che “oltre quattro milioni di sesterzi per la sola decorazione floreale” furono sperperati in un convito, dove è ospite l’imperatore (“Vita dei Cesari”, Nerone. 27).

Non si riuscì durante l’impero ad arginare l’eccessivo fasto nel cibo e nelle spese voluttuarie e a tornare alla temperanza e semplicità delle origini. Perciò la sontuosità del banchetto romano è divenuta proverbiale: si dice tutt’oggi “pranzo luculliano” come sinonimo di un banchetto abbondante, sontuoso e raffinato, alludendo a Lucullo, generale romano passato alla storia non per le glorie belliche ma per i pranzi  sfarzosi a base di carni pregiate, come i pavoni, i cinghiali, i tordi, e i pesci più rari. A questo punto vale la pena concludere facendo propria la sentenza di Quintiliano: “Non vivo per mangiare, mangio per vivere” (“Istituzioni.Oratorie”, III, 85).

 

Ma torniamo al presente: l’umanità si trova oggi di fronte a una sfida di ordine economico e tecnico ma ancor più etico e politico. Ogni giorno veniamo bombardati da notizie su persone che soffrono per la mancanza di cibo o muoiono di fame. Questi impressionanti dati e le immagini di bambini denutriti che irrompono nel nostro quotidiano sono disperatamente un contraltare al nostro mondo fatto di consumismo, di surplus alimentare, e di indifferenza verso quell’area geografica che non fa parte dell’occidente industrializzato con la sua economia capitalistica e di mercato.

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