di Giuseppe Castellini

C’è un concetto di fondamentale importanza, in un bellissimo libro di Gustavo Zagrebelski, già presidente della Corte costituzionale, dal titolo "Il crucifige e la democrazia". Ossia, la differenza tra essere folla ed essere popolo. Differenza che è grandissima.

La folla è umorale, ondeggiante, in preda a impulsi, manipolabile: prima accoglie Gesù trionfalmente sventolando le palme, poi qualche giorno dopo la stessa folla, adeguatamente manipolata, sceglie il crucifige, sceglie di salvare un assassino come Barabba e di mandare a morte un Gesù. Il popolo è un’altra cosa. Il popolo esiste rispettando regole, procedure, equilibri, maturando opinioni nel confronto, maturando con la ragione. La democrazia è procedura e per questo è fragile e un po' più lenta. Ma senza le procedure non c'è democrazia, non c'è popolo. C'è solo la folla e i sui umori e chi sfrutta questi umori ondeggianti.

La crisi dell’Occidente è che siamo diventati via via sempre più folla e sempre meno popolo.

Ecco perché sono preoccupato e difendo a spada tratta la democrazia liberale i suoi contenitori, senza i quali nessun contenuto costruttivo può condensare. Il mio timore, ripeto, è che ci sia chi lavora per trasformare - non per aggiornare, migliorare, rendere più avanzata e trasparente - la democrazia liberale (nel mondo è un’isola sempre più sotto attacco, dall’esterno e dall’interno), ma farla scivolare nella democrazia plebiscitaria. Che sempre, nei tempi antichi e in quelli moderni, è stata ed è il regno della folla, non del popolo. Il risultato è che saremmo meno liberi (molto meno liberi) e anche meno (molto meno) prosperi.

Non credo sia un caso che i fautori della democrazia plebiscitaria (cos’è il progetto targato Casaleggio di superare il parlamentarismo grazie alle nuove tecnologie se non quello si far diventare folla il popolo?) siano quelli della proposta originaria, su cui dovremo esprimerci domani e lunedi nel referendum costituzionale, di ridurre il numero dei parlamentari. Vedo chiaro - dietro una proposta che di per sé parrebbe innocua - il rischio che, pezzetto dopo pezzetto, ci portino alla democrazia plebiscitaria. Loro lo chiamano sogno, io lo vedo come un incubo.

Tra l’altro, poco giorni fa, il figlio di Casaleggio, in un’intervista a ‘La Verità’ (giornale tra quelli che, in mille modi, si batte per la democrazia plebiscitaria) ha ribadito, per punto, le tesi del padre, il vero ideologo del Movimento Cinque Stelle: la tecnologia consente di oltrepassare la democrazia parlamentare (ossia la democrazia liberale) per andare alla democrazia diretta, che è appunto la democrazia plebiscitaria dove anche le garanzie costituzionali vengono sfilacciate, indebolendo di fatto anche le garanzie delle minoranze ed evitando così il rischio della dittatura della maggioranza (o delle maggioranze), tema caro a tanti pensatori politici a cominciare dalla famosa analisi contenuta da Tocqueville ne ‘La Democrazia in America’, tra gli studiosi più acuti nell’individuare le regole perché ciò non avvenga (non a caso Tocqueville è tra i principali padri della democrazia liberale).

E, nel campo occidentale delle democrazie liberali, l’esempio più chiaro arriva dagli Stati Uniti, dove c’è un presidente (che mi auguro gli americani non rieleggano nelle elezioni di novembre) che è stato eletto sull’onda di un populismo nazionalista avendo in testa proprio una democrazia plebiscitaria che Trump ha dettato di imporre come agenda politica ma che, per fortuna, ha trovato una fortissima barriera nel Congresso americano e nella Corte Suprema, in un Paese dove – proprio per evitare derive plebiscitarie e la conseguente dittature della maggioranza (o delle maggioranze) - i padri della Costituzione americana hanno previsto un fortissimo equilibrio tra pesi e contrappesi.

Le Costituzioni liberali, infatti, oltre all’equilibrio tra i poteri (legislativo, esecutivo, giudiziario) creano un sistema di garanzie e di diritti che nessuna maggioranza può alterare.

L’obiettivo di non pochi fautori del Sì, e di certo dei Cinquestelle, al di là delle riduzione del numero dei parlamentari, è di indebolire il ruolo del Parlamento. Pezzetto dopo pezzetto, arrivare alla democrazia plebiscitaria buttando a mare la democrazia liberale, che è la forma più avanzata di democrazia.

Questo non significa che la democrazia liberale italiana non vada riformata, anche a fondo (ad esempio credo che oggi, come avviene nei Comuni e nelle Regioni, non si possa non dare risposta anche a livello nazionale alla domanda sempre più forte di avere una qualche forma di elezione diretta del presidente), ma rafforzando nel contempo tre pilastri: il ruolo del Parlamento (diritto di veto su alcuni temi e così via, e con un sistema elettorale che dia la possibilità, come avviene in Francia, che presidente eletto direttamente e Parlamento possano essere di colore diverso), il ruolo della Corte costituzionale portandolo al peso che ha negli Usa la Corte Suprema, il ruolo delle Regioni con un regionalismo più ampio che bilanci il maggior peso dell’Esecutivo nazionale determinato dall’elezione diretta.

Ma da qui a fare la controrivoluzione verso una democrazia plebiscitaria la distanza è enorme.

Insomma, il ‘crucifige’ del Parlamento che sta dietro questo referendum dovrebbe spingere chi ama la democrazia liberale e non ama la democrazia plebiscitaria – perché porterebbe appunto a meno libertà e a meno benessere – a votare ‘No’. Difendo così i valori fondanti della nostra Costituzioni, non perché non si senta il bisogno di riforme anche costituzionali anche profonde, ma perché quel ‘No’ è dire che non si vuole andare nella direzione sbagliata.

Io credo che il ‘Sì’ vincerà, perché questi discorsi, in un’Italia affetta storicamente da vittimismo passivo (vittime delle potenze demoplutocratiche, giudaiche e massoniche al tempo del fascismo, vittime dell’Europa, vittime del Parlamento, vittime dei partiti, vittime di tutto), che alcuni ragioni spesso ce le ha ma che produce solo un sentimento di rivolta sterile, che non diventa rinnovamento vero e che non ha sbocchi, sono più difficili da far passare rispetto alla risposta semplificata del ‘crucifige’ e del vittimismo.

 Gli esempi non mancano oggi in tutto il mondo: in Europa basti pensare a Orban e alla Polonia, in Sud America a Bolsonaro (e in Sud America la tradizione di ‘caudillos’ è lunga e rovinosa), per arrivare a Putin e alla democrazia autoritaria e per non parlare della Cina (che una democrazia proprio non è). Ma pulsioni verso la democrazia plebiscitaria ci sono in tutto il mondo.

Alla fine, per restare al nostro Paese, se non fermiamo queste spinte gli italiani avranno un’altra occasione per sentirsi vittime: vittime della democrazia plebiscitaria, che produrrà guai grossi. Talvolta, guardando alla storia degli ultimi 600 anni ho l’impressione che, alla fine, gli italiani abbiano l’impulso irrefrenabile di essere vittime di se stessi, salvo qualche luminosa parentesi. Non assumendosene mai la responsabilità. Perché, per molti italiani, “italiani sono sempre gli altri”.

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