di Maria Pellegrini.

Fonti storiche e letteratura raccontano con numerosi dettagli la pulsante vita diurna di Roma antica, metropoli con milioni di abitanti. Karl Wilhelm Weeber, storico e filologo classico, docente universitario in Germania, descrive invece «La vita notturna nell’antica Roma» (Newton Compton, pgg. 174, € 8.90). Nel sottotitolo del volume c’è un breve cenno ad alcuni argomenti: «Gli intrattenimenti degli antichi abitanti dell’Urbe dal tramonto all’alba, tra taverne, tavoli da gioco, incontri galanti, orge e banchetti». Weber ci offre una narrazione ricca di riferimenti a testi di tutti i più famosi classici latini, la cui lettura ci fa venire in mente il famoso motto «Nulla di nuovo sotto il sole». Scorrono pagine dove scopriamo fatti, abitudini, vezzi, sconcezze, volgarità, passatempi ricreativi tipici anche dei nostri giorni. Del resto i titoli dei singoli capitoli sono una dimostrazione dell’attualità del comportamento notturno dei nostri progenitori. Ne riproduciamo alcuni per comodità del lettore e per invogliarlo a leggere un libro «colto», ma anche divertente: «Osterie, taverne e locande», «Quando il gioco dei dadi regna nella notte», «Sfaccettature dell’ambiente a luci rosse romano», «Nottambuli o teppisti?», «Notti d’amore nel mondo dell’elegia romana».

Entriamo con più precisione nel testo. Weeber ci ricorda che le notti romane degli antichi non erano immerse nel silenzio. Roma era anche di notte una città rumorosa (“clamosa urbs”). Per evitare che di giorno la città fosse invasa dal traffico dei carri fu imposto, a partire dall’età imperiale, il divieto di circolazione; ne conseguì che nelle ore notturne lo strepito delle ruote disturbava il sonno ed era un vero tormento, perché oltre che impedire il riposo, talvolta causava malattie. Il poeta satirico Giovenale aveva dato questa testimonianza sulle notti insonni dei romani:

«A Roma, la maggior parte degli ammalati muore per insonnia. Si dorme nella città se si hanno grandi ricchezze. L’origine di questa malattia proviene dal passaggio senza tregua dei carri nelle strettoie dei vicoli» (“Satire”, III).

Le satire di Giovenale, quasi capitoli di uno stesso poemetto apocalittico sulla invivibilità di Roma, sembrano anticipare le vistose storture di molte metropoli moderne e i caratteri sociologici di qualsiasi agglomerato urbano in confusa, febbrile espansione.

Di notte molto frequenti erano gli incendi e crolli di case. A partire dall’età imperiale per il proliferare degli incendi furono istituiti i “tresviri nocturni”, i nostri vigili del fuoco, incaricati anche dell’ordine notturno e di rispondere a richieste di aiuto.

A sfruttare le tenebre per compiere furti e atti di piccola criminalità c’erano anche i nottambuli. Il mondo dei tutori dell’ordine s’incrociava con quello di chi si divertiva, in modo più o meno lecito, fino a notte fonda oppure fino all’alba.  Passeggiare per le strade poteva essere pericoloso: numerose orde di giovani di buona famiglia, dopo un baccanale (con tanto di "certamen in bibendo", ossia record di bevute), gareggiavano spesso a molestare chiunque avessero trovato sul loro cammino.

La notte romana era movimentata anche da comportamenti brutali: ad esempio quelli di gruppi di teppisti, spesso ubriachi, che non esitavano ad assalire e depredare i passanti attardati su vie malsicure. Il fatto singolare è che di tale passatempo si compiacevano anche personaggi di alto rango, e persino alcuni imperatori quali Caligola, Nerone, Otone, Vitellio, naturalmente scortati a distanza da gladiatori di loro fiducia. Cassio Dione così documenta: «Nelle ore notturne l’imperatore Nerone girovagava in segreto per l’intera città, importunava le donne, abusava dei giovani e spogliava, picchiava, feriva e uccideva tutti coloro che incontrava sul proprio cammino» (“Storia romana” LXI). In una satira di Giovenale si descrive quanto fosse pericoloso attardarsi di notte per Roma:

«Sei un incosciente se vai fuori a cena senza aver fatto testamento... gli ubriachi sono incattiviti a tal punto che se non avevano ancora accoppato un uomo, davano in escandescenze». (“Satire” III).

Luoghi molto frequentati erano le taverne (“tabernae”) e le osterie (“popinae”), alcune sempre aperte anche di notte (“pervirgiles popinae”), luoghi indecorosi e non frequentati dagli uomini di un certo rango che incontravano i propri amici nelle loro ville o in circoli privati, Non era insolito tuttavia che anche persone rispettabili si aggirassero in incognito in quei locali pieni di fumo e degli odori delle pietanze fumanti nelle pentole. Nelle osterie non era insolito trovare sul retro locali per bische clandestine, giochi d’azzardo, e ambienti a luci rosse, locali malfamati dove ostesse e cameriere si prostituivano.

Il gioco d’azzardo con i dadi era frequente e riguardava anche ambienti più elevati della società romana.

Naturalmente più “stuzzicante” è il capitolo «Sfaccettature dell’ambiente a luci rosse romano» dove in apertura è presentata una «prostituta instancabile, sempre ultima a lasciare il prostibolo, stanca ma non ancora sazia di uomini». Si tratta nientemeno che di Messalina, terza moglie dell’imperatore Claudio, immortalata dal poeta Giovenale nella sesta satira, dedicata alle donne. Impietosa è la descrizione della sua lussuria:

«Ora ascolta che cosa Claudio abbia dovuto sopportare. Appena sua moglie si accorgeva che lo sposo dormiva, osando preferire al talamo del Palazzo una stuoia, l’Augusta meretrice si copriva d’un notturno cappuccio, usciva accompagnata da non più che una sola ancella. Ed ecco, celando la sua nera chioma con una parrucca bionda, entrava in un afoso postribolo dai logori cuscini, in una stanzuccia vuota a lei riservata; allora si prostituiva sotto il mentito nome di Licisca, e mostrava il ventre che ti aveva generato, o nobile Britannico. Mielosa accoglieva i clienti, chiedeva i denari e sdraiata assorbiva senza interruzione i colpi di tutti. Poi quando il ruffiano mandava via le sue ragazze, anche lei se ne andava tristemente e tuttavia per quanto poteva chiudeva per ultima la stanza, infine si allontanava sfiancata dai maschi ma non ancora sazia, e, disgustosa per le guance lorde, sudicia di fumo e di lucerna, portava nel letto imperiale il puzzo del bordello». (“Satire”, VI)

Plinio il Vecchio, molti anni prima che Giovenale scrivesse questo terribile ritratto, aveva anch’egli spudoratamente narrato di una regale vittoria riportata dall’imperatrice: dopo aver sfidato la più famosa cortigiana di Roma in una singolare gara di resistenza, Messalina aveva superato la professionista e avuto la palma della vittoria per essersi sottoposta a ben venticinque amplessi in una sola notte.

Per quanto viziosa e terribile possa essere stata la condotta di Messalina, certamente non si discostò di molto da quella di tante altre matrone dell’aristocrazia romana dedite all’adulterio, molte delle quali, come ha scritto Svetonio, «per sfuggire ai rigori della legge rinunciavano alla loro dignità e ai loro diritti e preferivano farsi schedare ufficialmente come prostitute».

I Romani associavano l’ambiente della prostituzione all’“infamia”. Non era decoroso farsi vedere frequentatore di un bordello, questi ambienti a luci rosse erano confinati nelle strade secondarie della città. Tuttavia «la prostituzione era parte della vita quotidiana romana». L’esercizio era esente da pena. La vendita del corpo era considerata una professione. Già al tempo del commediografo Plauto (III sec. a. C,) era considerata azione legittima. Nella commedia Curculio, riporta Weeber, leggiamo: Foto di copertina

«Nessuno proibisce o ti vieta di comprare una donna, dato che è liberamente in vendita (...) Lascia stare le donne maritate, le vedove, le vergini, i giovanotti, i ragazzi di nascita libera e poi fa’ pure all’amore con chi vuoi».

A proposito di queste «categorie» alle quali non si deve chiedere o imporre sesso, c’è però un’esclusione: i ragazzi liberi. Ciò perché la pederastia e l’amore mercenario erano invece permessi e apertamente (e aggiungerei scandalosamente) praticati con adolescenti schiavi.

Anche nei vasti e sordidi ambienti della prostituzione femminile c’erano, pur se non codificate, distinzioni sociali: le “meretrices”, giovani donne attraenti, che operavano all’interno di lupanari frequentanti da persone di più alto ceto, e in condizioni molto diverse da quelle delle “postribulae”, che di solito attendevano e adescavano i clienti direttamente davanti al postribolo o ai margini delle strade di maggior traffico. Ma tutte potevano essere definite “infames” ma questo aggettivo, che oggi ha un significato estremamente spregevole, nella società e nel costume antichi di Roma aveva un significato abbastanza generico, comprendente categorie «prive di buona fama», tanto che potevano essere indicate da esso certe professioni o mestieri quali gli attori o i bottegai, e soprattutto gli osti.

«La notte non è fatta per dormire» scrive Weber per annotare: «non è solo un topos letterario che l’atto amoroso fosse una pratica principalmente notturna». Aspettare la notte con ansia per i “gaudia Veneris”, le gioie d’amore, è molto comune nelle elegie latine. Leggiamo in Properzio: «Corri sul mio letto, fanciulla!», poi esorta il sole: «Abbrevia il tuo corso, sostino in cielo i venti!» (“Elegie”, III).

«Una notte senza amore (“nox vidua”) era considerata sprecata dai poeti elegiaci che volevano assaporare fino in fondo i piaceri della notte consumarla in lunghi giochi d’amore… l’ideale dei poeti erano infatti le battagli combattute a letto (“bella nocturna”)».

Venuti in contatto con i greci, i romani, adottarono la loro tradizione del simposio, una pratica conviviale durante la quale il vino era l’elemento essenziale, i commensali bevevano secondo le prescrizioni del simposiarca, il “rex bibendi”, intonavano canti, si dedicavano ad intrattenimenti di vario genere (recita di carmi, danze, conversazioni, giochi, risoluzione di indovinelli, enigmi). C’era l’uso di cingersi il capo con corone di edera o mirto intrecciate di fiori.

I romani lo praticarono facendolo seguire al banchetto della cena che avveniva nel pomeriggio. Essi s’immergevano in un mondo di rilassatezza e svago, che faceva loro dimenticare gli impegni degli affari e dei doveri della giornata.

Abbiamo dato soltanto una traccia della gustosa narrazione offerta da Weeber, la lettura riserverà tanti altri aspetti piacevoli e inaspettati della vita notturna di Roma antica.

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