di Maria Pellegrini.

Nella quarta di copertina del libro di Flavio Ferri, I tribuni della plebe, con sottotitolo: Origine e storia della lotta di classe nell’antica Roma (ed. Red Star Press, 2020, pgg. 104, € 10,00) leggiamo questa citazione: «La storia di ogni società esistita fino a questo momento, è storia di lotte di classi» (K. Marx-F. Engels). In questa sua opera l’Autore ricostruisce quella che è stata una lotta di classe tra una minoranza di privilegiati, i patrizi, e una massa di esclusi dai diritti più elementari, i plebei.
Nella storia romana il conflitto tra queste due classi sociali si protrae a lungo. I patrizi sono soprattutto grandi proprietari terrieri, appartenenti ad antiche famiglie; il loro nome “patricii” dal latino “pater”, li indica discendenti dei primi senatori nominati da Romolo. L’autorità di alcune famiglie è basata sull’antichità e con il tempo sulla propria affermazione sociale ed economica e il rafforzamento dei propri privilegi di casta. I plebei sono per lo più nullatenenti, braccianti, artigiani, piccoli produttori, dediti ai mestieri più umili, sottoposti all’arbitrio dei patrizi che hanno il controllo del potere religioso e del diritto. Dopo la cacciata dei re (fissata secondo tradizione al 509 a. C.) e l’istaurazione della repubblica, il nuovo ordinamento politico vede il predominio del patriziato che ha creato uno stato di cose atto a mantenere al proprio ceto sociale quei privilegi dai quali sono esclusi tutti i plebei.
Agli inizi del V secolo la repubblica romana deve affrontare una lunga serie di guerre con le popolazioni vicine: Latini, Vei, Equi, Volsci; guerre che compromettono seriamente la sua prosperità economica. I ceti che più soffrono sono quelli più poveri: reclutati per formare l’esercito devono marciare in guerra contro i popoli vicini, mentre i campi trascurati o abbandonati rendono povere le condizioni delle famiglie. Il disagio economico è tale che molti diventano debitori dei patrizi e cadono in loro schiavitù. Esasperati dalla miseria, i plebei aspirano alla cancellazione del debito, per ottenerla (nell’anno 494 a. C.) passano alla secessione avvenuta su un colle, forse il Monte Sacro, dove avviene il giuramento che costituisce l’atto fondativo dell’istituzione del tribunato della plebe, creato con una legge approvata dai soli plebei e successivamente per merito di Menenio Agrippa, che riesce a convincere i ribelli a tornare in città, è approvata da tutto il popolo (patrizi e plebei).
Ferri, nell’Introduzione, informa il lettore sulle finalità della sua opera: «Fare un’analisi storica dell’origine del tribunato prendendo in esame i passaggi ritenuti cruciali alla sua prima formazione e al suo consolidamento». Le fonti storiche sono spesso in contraddizione tra loro riguardo all’origine e alla natura del tribunato che senza alcun dubbio ebbe un il ruolo centrale all’interno della lotta per i diritti civili e politici della plebe. Nei capitoli successivi si ripercorrono tutte le tappe di questa nuova carica «estranea al corpo istituzionale e legata direttamente alla comunità». Il primo riconoscimento che il tribuno della plebe ottiene, la “sacrosantitas”, lo rende inviolabile; seguono altre leggi: lo “ius auxilii”, ossia il diritto assistenza e tutela da attacchi e soprusi nei confronti di qualsiasi plebeo, lo “ius intercessionis”, cioè il diritto di veto a ogni legge che i tribuni ritengano nociva ai plebei e lo “ius coercitionis”, il diritto di agire in sede penale contro chiunque rechi danno alle loro persone, e di agire contro chiunque contravvenga alle leggi stabilite, chiamate “leges sacratae” (leggi sacre) perché legate al giuramento di farle rispettare.
Considerando che questo stato di fatto è scaturito da un atto di disobbedienza come la secessione, da alcuni storici è stato attribuito un carattere rivoluzionario a questa reazione della plebe che lotta per i propri diritti.
Le fonti storiche (Livio, Dionigi di Alicarnasso, Plutarco, Cassio Dione, Diodoro Siculo, Cicerone, Valerio Massimo) sono concordi su questi poteri iniziali dei tribuni,  discordi sul loro numero, inizialmente di due come i consoli, ma in seguito - per garantire loro un maggiore peso politico - si arriva fino a cinque e poi a dieci elementi.
Il contrasto tra le classi sociali deriva anche dalla mancanza di fondamentali diritti giuridici. Quei plebei economicamente più forti vogliono conquistarsi la possibilità di accedere alle magistrature riservate solo ai patrizi e il movimento di rivolta contro il patriziato inizia proprio dai plebei più benestanti che lottano per l’uguaglianza politica più che economica. A questo scopo trascinano con sé la massa dei miserabili e dei piccoli proprietari che aspirano a benefici economici e alla cancellazione del debito.
Ferri considera l’anno 471 a. C. importante per il consolidamento del tribunato con due innovazioni: aumento del numero (anche se alcuni storici lo collocano più tardi) e l’introduzione della legge Publilia che dopo tante controversie è approvata per la regolamentazione e quasi una rifondazione del tribunato: «tale organo rivoluzionario offre ai suoi rappresentanti maggiore legittimità all’interno dell’ordinamento della repubblica».
Nel 451 a. C. è affrontato il problema della codificazione scritta delle leggi sino allora basate sulle consuetudini tradizionali e tramandate oralmente dai magistrati patrizi. Si istituisce una commissione di dieci persone (“Decemviri”), una magistratura con pieni poteri civili e militari, incaricata di regolarizzare e promulgare le leggi, cioè fondare giuridicamente lo Stato. Nel corso degli anni 451 e 450 a. C. sono scelti dieci uomini (“decemviri legibus scribundis”) che hanno funzione di organo politico costituente con pieni poteri. Ad essi si deve la compilazione delle XII Tavole delle leggi che costituiscono il più antico codice di diritto romano. Furono sospese tutte le altre magistrature compreso il tribunato. I decemviri si macchiano di atti di violenza e soprusi; sotto accusa è soprattutto Appio Claudio che vuole rendere stabile questa magistratura decemvirale. La plebe con un atto di disobbedienza civile, attua una nuova secessione sul monte Sacro o sull’Aventino (c’è discordia tra i due luoghi nelle fonti). La rivolta appoggiata anche dai patrizi, rovescia il regime di Appio Claudio e dei decemviri. La “lex Valeria Horatia” del 449 è fondamentale per il riconoscimento ufficiale del tribunato e la legittimazione legale dopo l’abbattimento dei decemviri e il ripristino di tutte le magistrature.

La lotta della plebe per la conquista dei diritti è molto accesa ma l’intermediazione dei tribuni consente sempre una rappresentazione legale e riesce a far accogliere le istanze della plebe evitando l’acuirsi dei conflitti.  Ferri cita il giurista Giuseppe Grosso, docente di diritto romano, che paragona la lotta della plebe «a una lotta di classe “ante litteram”, riprendendo il Marx e l’Engels del Manifesto del Partito comunista che citano il conflitto tra patrizi e plebei facendo un’analogia fra borghesia e classe operaia del loro tempo».
A proposito dell’importanza dell’istituzione del tribunato e delle lotte di chi era portavoce delle istanze degli esclusi soggetti al sopruso dei potenti, è doveroso ricordare che Machiavelli nei “Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio” (I, 4) attribuisce un grande merito alle lotte sociali che si accesero a Roma nel periodo compreso fra la fine della monarchia (509 a.C.) e l’istituzione del tribunato della plebe (fine del IV sec. a.C.) rovesciando un luogo comune della storiografia, secondo cui quelle lotte interne furono considerate un fattore di debolezza della repubblica:
«Io dico che coloro che condannano i tumulti tra i nobili e la plebe, mi pare che biasimino quelle cose che furono prima causa del rendere libera Roma. E se i tumulti furono cagione della creazione dei tribuni, meritano somma lode; perché, oltre al dare alla propria parte l’amministrazione popolare, furono costituiti per guardia della libertà romana. Si deve dunque più parcamente biasimare il governo romano, e considerare che tanti buoni effetti, quanti uscivano da quella repubblica, non erano causati se non da ottime ragioni».

Ogni studioso dell’antichità deve partire dalle analisi delle fonti, cioè di tutto ciò che del passato si è conservato fino a noi. Ferri ha condotto il suo lavoro con estremo rigore, consultando le voci talvolta discordi degli storici antichi e riportando i giudizi di autori moderni citati nella Bibliografia. Con una attenta analisi dei fatti, senza indulgere nella narrazione di racconti leggendari, con felice capacità di sintesi egli abbraccia il largo orizzonte della storia dei primi anni della repubblica romana. Sebbene i riferimenti appartengano a lontani contesti storici, non mancano interrogativi e confronti con il mondo contemporaneo. Il processo politico che ha portato i tribuni alla conquista dei diritti sociali, negati a una parte della popolazione, è visto «come un esempio tangibile di come i cambiamenti non sono il frutto di chi detiene il potere supremo ma che esso deve fare i conti con le istanze degli altri ceti».

Nota: Il libro è la tesi di laurea del giovane storico Flavio Ferri che ha vinto il Premio Francesco Lorusso. Per le finalità del premio, molto innovative, aprire questo link:
 https://premiolorusso.cuabologna.it/contro-la-meritocrazia-per-lauto-valorizzazione-perche-il-premio-di-laurea-francesco-lorusso/

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