di Maria Pellegrini.

Un marxista non è un uomo meccanico
un robot, ma un concreto
socio-storico essere umano
in carne e sangue, nervi testa e cuore.

Sono versi del poeta turco Nâzım Hikmet, scritti in risposta a quei compagni comunisti ortodossi che gli rimproveravano - quasi fosse una distrazione dall’impegno e dalla lotta politica - l’accendersi alle passioni d’amore che riecheggiano nelle sue opere. È una citazione appropriata per iniziare a scrivere qualche riflessione sul libro di Luciana Castellina Amori comunisti (Nottetempo, 2018, pgg 267, € 16,00).

Le vicende narrate sono quelle di tre coppie: il poeta turco Nâzım Hikmet e la traduttrice Münevver Andaç; i greci Nikos Kokovlìs e Arghirò Polichronaki; gli americani Sylvia Berman e Robert Thompson. Sono cronache di amori intrecciati alla passione politica di uomini e donne che per la loro fede nell’ideologia comunista sono stati incarcerati, costretti alla clandestinità o a una vita di dura sofferenza. Sullo sfondo le pagine più dure della storia della prima metà del Novecento: la dissoluzione dell’impero ottomano, i massacri armeni del 1915-1922, la repubblica turca di Kemal Atatürk, la rivoluzione russa, la prima e seconda guerra mondiale e il dopoguerra.

Luciana Castellina, scrittrice, giornalista, iscritta al Pci nell’autunno del 1947, poi radiata dal partito nel 1969 quando, con Magri, Natoli, Parlato, Pintor e Rossanda, fonda Il Manifesto, ha sempre lottato con entusiasmo - nella sua intensa attività di militante, dirigente politica e parlamentare europea e nella sua vita privata - per affermare idee di giustizia, libertà, progresso sociale. Le biografie di questi uomini e donne, da lei narrate con partecipazione emotiva, rivelano percorsi amari e crudeli: la durezza delle carceri, dell’esilio, il dolore fisico per le malferme condizioni di salute, e psichico per la lontananza da luoghi e persone familiari. L’amore sarà gioia e sofferenza ma anche sostegno nei momenti d’inquietudine, di disperazione o paura. Castellina vuole che la sua narrazione diventi testimonianza di vite vissute con coraggio e determinazione perché hanno da insegnare qualcosa a chi oggi sembra vivere senza passioni, in una sorta di tempo sospeso, come in attesa che altri decidano per noi.

La prima parte del libro è dedicata al noto poeta turco Nâzım Hikmet. La sua vita è un continuo calvario, una perfetta fusione tra sentimenti e impegno politico, le sue poesie scritte in gran parte durante i lunghi anni trascorsi in carcere esprimono la sua lotta per la libertà e il diritto dei popoli e l’emozione nell’amare e sentirsi riamato. Nonostante i ripetuti arresti e processi dei quali si dà conto dettagliato con nomi di luoghi e date nel libro, Hikmet non tralascia mai di scrivere. Se gli tolgono carta e penna impara a memoria i suoi versi, veri e propri inni alla vita, o li fa imparare a chi va a trovarlo.

Quando il mondo è sconvolto dalla seconda guerra mondiale e per Hikmet, scrive Castellina, «la solitudine si è fatta più dura da sopportare perché è più triste sentirsi tagliato fuori dagli avvenimenti» di cui in carcere arriva soltanto un’eco di massacri, morti, carneficine. Mentre è recluso in una cella a Bursa nella sperduta Anatolia «è disperato, lontano da dove si giocano le sorti dell’umanità». Quando nel ’45 la guerra finisce, il poeta, in carcere da sette anni, si sente escluso da ciò che accade fuori, e quando durante la guerra fredda Ankara si allinea agli Stati Uniti ed entra nella Nato per paura dei sovietici «cade ogni possibilità di un’amnistia per un comunista. Nazim si sente marcito, dimenticato». Quello che lo fa soffrire è anche il fallimento delle sue storie d’amore a causa dei continui arresti, detenzioni, spostamenti in altre città.

Quando la donna del suo secondo matrimonio non si fa vedere, non risponde alle sue lettere, il suo dolore è espresso in una poesia che lamenta la privazione dell’amore che la situazione carceraria impone: «Noi siamo seicento uomini senza donne» e rivolto a sua moglie: «mia cara mi è proibito di toccare la tua pelle». Quando un giorno vede davanti al portone d’ingresso alcune donne in fila in visita ai carcerati, scrive:

«Sei donne aspettano fuori del portone di ferro

e dentro - be’ -, ci sono cinquecento uomini.

Tu non sei una delle sei donne,

io sono uno dei cinquecento uomini».

 

La vita di Nâzım scorre nelle pagine del libro tra fughe, clandestinità, arresti, processi, detenzione, i brani poetici citati nel libro registrano i suoi pensieri ed emozioni. La felicità può arrivare anche da un raggio di sole in una domenica quando, dopo giorni trascorsi in una cella d’isolamento, gli è concessa qualche ora d’aria:

Oggi è domenica,

oggi per la prima volta mi hanno portato fuori al sole.

Sono stato lì per la prima volta realizzando

quanto il cielo è lontano

quanto grande

quanto è blu.

Ciò che torna a sollevarlo è un nuovo amore. Una sua cugina che non vede più da tanti anni, Münevver Andaç, si fa viva con una lettera poi con una visita. Nâzim «si perde subito nei suoi occhi verdi» e comincia a scriverle una gran quantità di poesie-lettere: con l’amore è tornata l’ispirazione. Ha ancora molti anni di carcere da scontare, ma nel 1950 si apre uno spiraglio: un’amnistia permette ai prigionieri politici di ottenere uno sconto di pena; per lui che ha già trascorso gran parte degli anni di detenzione stabiliti si aprono le porte del carcere e «ad attenderlo c’è Münevver». Anche questa storia d’amore ha un finale amaro. Nâzim sta riscoprendo la vita, nasce anche un figlio, ma c’è un complotto contro lui divenuto celebre per le sue poesie e per i suoi lunghi anni nelle carceri, e ciò lo rende inviso al potere. Vogliono allontanarlo, c’è un rigurgito viscerale anticomunista, lo obbligano a trasferirsi a Zara un piccolo villaggio nell’estremo Est dell’Anatolia. Un giovane lo aiuta a preparare un rischioso piano di fuga che lo porterà a Mosca dove è accolto come un eroe, ma è separato ancora una volta da Münevver che non ottiene il permesso di poterlo raggiungere. Nâzim non riesce a essere fedele, ama e sposa un’altra donna, la russa Vera Tuljakova, ma continua a scrivere lettere a Münevver che si dedica a tradurre in francese le opere dell’uomo che non può dimenticare.

L’amore di Nikos Kokovlìs e Arghirò Polichronaki dura invece tutta la vita. Il primo incontro avviene sulle montagne cretesi, nel pieno della guerra civile che devasta la Grecia nel 1948. Sulle alture resistono per anni insieme ad altri comunisti; sono clandestini, si riparano in grotte sul mare aiutati dai pescatori e in rifugi in una zona della città La Canea. Nel 1952 risultano vivi e attivi solo tredici combattenti della guerra civile, tra cui due donne. Nikos e Arghirò trovano rifugio in un villaggio a otto chilometri da La Canea, aiutati e nascosti in una stalla. In un libro scriveranno la loro storia, il loro progetto di lavoro politico clandestino: «i militanti della rete clandestina non imbracciano più il fucile, ma fanno propaganda in città». Nuovi arresti, la caccia ai clandestini continua. Rimangono nascosti per decenni, nel 1962 insieme ad altri quattro compagni trovano rifugio e protezione in Italia. La ricerca di un luogo sicuro dove non ci sia chi li possa rispedire in Grecia li porterà prima in Ungheria, poi a Mosca, dove saranno accolti con tutti gli onori. Ci sono altri esuli greci che vivono in URSS, sono tutti raggruppati a Tašket, capitale dell’Uzbekistan, la città più grande e moderna dell’Asia sovietica, ma isolata e poco europea. Non è la prigione come i greci rimasti in patria, possono studiare laurearsi, sposarsi, ma a contatto con il comunismo sovietico riflettono criticamente su tante scelte del Partito. Il libro che hanno scritto insieme e pubblicato li fa considerare “dissidenti”, ma loro «rivendicano la propria scelta perché non ce ne era un’altra». Dal punto di vista sentimentale hanno finalmente potuto vivere insieme e avere un figlio. Castellina li incontra a Creta dove sono finalmente rientrati, nel 2007, e viene a conoscenza dal loro racconto di tutta la storia che leggiamo narrata nel libro.

Con la coppia Sylvia Berman e Roberto Thopson siamo negli Stati Uniti negli anni del maccartismo, i comunisti non hanno vita facile, se sono iscritti al partito sono considerati spie dell’Unione Sovietica, non trovano lavoro, devono cambiare nome e operare in clandestinità. La loro storia d’amore è vissuta sotto i continui controlli della polizia che li sorveglia. I file dell’FBI su Sylvia ammontano a 3200 pagine. A New York Robert è diventato un leader del Partito Comunista, ma nel 1948 è accusato di cospirazione. C’è la guerra fredda, i membri dell’esecutivo del Partito Comunista americano sono arrestati e condannati a cinque anni di prigione. La mobilitazione contro i comunisti continua anche negli anni ’50 con altre ondate di arresti. Sylvia e Robert s’incontrano di persona nel’57 quando lui esce di prigione. Vivono insieme ma lui riprende a impegnarsi nel lavoro del Partito che lo porta a viaggiare a interessarsi dei lavoratori nelle fabbriche. Si scrivono molte lettere. Ne ’62 si sposano potrebbero vivere finalmente in stato di serenità, ma «la fibra robusta di Robert si spezza il 16 ottobre 1965, aveva cinquant’anni».

Ultimo atto di amore di Sylvia è stata la battaglia perché le ceneri di Robert fossero sepolte nel cimitero di Arlinghon in virtù di una decorazione avuta per il suo eroismo in guerra. Il Consiglio Generale dell’Esercito vuole impedire che «un dirigente comunista, incarcerato perché sleale nei confronti del governo americano, sia sepolto fra gli eroi della patria», ma grazie alla campagna promossa dalla moglie tale divieto sarà dichiarato illegittimo. Anche Sylvia sarà in seguito sepolta accanto al marito.

Leggendo le interessanti storie di questo volume siamo catturati dalla piacevole scrittura della narrazione che nasconde quella ricchezza interiore necessaria per parlare di emozioni e sentimenti, ma anche stupiti dalla capacità di Castellina di offrirci un affresco della storia di mezzo secolo, di cui qui si è dato solo un vago accenno. Il modo chiaro e incisivo di affrontare argomenti di geopolitica così complessi che l’Autrice introduce e intesse nelle varie fasi biografiche dei protagonisti, diventa un’esortazione a riflettere sul cambiamento delle nostre vite, sul nostro modo di pensare in seguito all’avvicendarsi di processi storici, e segnala l’urgenza di una partecipazione attiva a quanto accade intorno a noi e lontano da noi per trasformare l’indomito egoismo umano in sincero e combattivo altruismo.

 

Condividi