di Maria Pellegrini.

Lo storico e latinista francese Jean Noel Robert in un volume pubblicato in Francia, e poi tradotto in italiano: I PIACERI A ROMA (ed. Odoya, pp. 305, € 18,00) ripercorre una fase della storia romana antica, tra il II secolo a. C. e il II d. C., per narrare come i Romani cercassero di rendere più piacevole la vita. Prima e dopo questo arco temporale la situazione fu, per vari motivi, diversa. Nell’indice sono già indicati gli argomenti principali del libro: il rapporto tra piacere e morale, il piacere nella scelta dell’abitare, dell’arte di vivere, degli svaghi durante le feste, del viaggiare, della tavola, e i piaceri della carne contrapposti a quelli dello spirito.

Passando in rassegna la vita di un popolo nel corso degli anni l’Autore ne illustra i cambiamenti che avvengono nei costumi, nelle leggi, nelle usanze, nello stile di vita e attraverso la testimonianza di poeti, storici, filosofi, uomini politici, mostra come dalla frugalità e austerità dei primi tempi i romani fossero passati all’amore per il lusso, per la ricchezza con le conseguenze di una decadenza di quei valori morali che aveva fatto grande lo Stato.

Nel primo e secondo secolo avanti Cristo anche la vita privata del cittadino era sottoposta al controllo dello Stato. Per questo furono istituiti i censori ai quali i cittadini romani dovevano rendere conto della loro attività sia pubblica che privata. A partire dal secondo secolo a. C. in seguito all’espansione territoriale la società romana subì profondi sconvolgimenti: il contatto con la civiltà greca introdusse usanze provenienti dall’Oriente e di conseguenza una decadenza dei valori morali su cui si fondava la Repubblica.

Gli ambienti più conservatori si scagliarono contro le culture extra-romane, accusate di corruzione, di indecenza, di immoralità e di abbandono del “mos maiorum” (il costume degli avi) cioè quel complesso di valori e di tradizioni che costituiva il fondamento della cultura e della civiltà romana.

Nel primo capitolo del libro Robert si sofferma ad analizzare come fu possibile che dalla rigidità e intransigenza in materia di moralità e di sacrificio per il bene comune si fosse lasciato tanto spazio al piacere e alla gioia di vivere. Catone il Censore (234-149 a. C.) rappresentò l’uomo che, privo di frivole debolezze, dedito al lavoro e disprezzando ogni lusso, si batté contro ogni cambiamento della società ponendo la famiglia, la tradizione, la religiosità, il culto dei Penati e dei Lari, protettori della casa, al centro della vita morale dei cittadini.

Dopo l'espansione dello Stato romano nelle terre conquistate, nacquero occasioni continue di arricchimento e di conseguente rilassamento dei costumi; nella stessa capitale i governanti cercarono di acquistarsi il favore del popolo offrendo svaghi di ogni genere, a partire da quelli spesso cruenti del circo. S’intensificò l’afflusso d’intellettuali greci e la città stava diventando la nuova capitale culturale del mondo antico mentre la classe aristocratica più lungimirante aveva ormai superato i pregiudizi di Catone che rimpiangeva il buon tempo antico quando era disprezzato chi si dedicasse a una vita rallegrata dai piaceri e dalla poesia d’amore.

Nonostante le numerose testimonianze di uno sbocciare nel primo secolo a. C. di una letteratura moralistica che condanna gli allettamenti troppo facili, «i piaceri - constata Robert- restano fra le maggiori preoccupazioni dell’uomo romano, che ricerca tutte le raffinatezze e le sofisticazioni che le sue ricchezze gli permettono; o che, a causa della sua povertà, si abbandona al godimento più volgare per trovare l’oblio alla sua condizione».

E qui potremo introdurre il capitolo in cui si tratta di quel piacere derivante da soddisfazioni sessuali che, come scrive lo storico francese, «limitato alla semplice voluttà sensuale, trovava a Roma il modo di soddisfare il suo insaziabile appetito».

Il rapporto che gli antichi Romani avevano con l’altro sesso e con l’amore era però piuttosto ambiguo: da una parte c’era l’istituzione del matrimonio, rispettata e protetta, dall’altra l’amore passionale, quello che si consumava fuori dalle mura domestiche con prostitute o cortigiane. Nonostante il mestiere di “meretrix” fosse infamante, era indiscussa la sua utilità sociale: soddisfacendo le fantasie sessuali degli uomini, salvaguardava il pudore delle mogli e madri romane (sic!). Alla matrona era imposto di appartenere a un unico uomo, non così per gli uomini.

I luoghi per eccellenza del meretricio erano i lupanari. Se ne contavano a decine per la città. Un’insegna di questi antichi bordelli aveva questo motto: “Hic habitat felicitas”. Pompei è un documento di notevole interesse per gli storici della sessualità per tutto ciò che resta della città sepolta dalle ceneri del Vesuvio; gli scavi archeologici hanno portato alla luce diversi luoghi adibiti a questo uso. Innumerevoli affreschi erotici delineano un quadro preciso di ciò che avveniva al loro interno. Ma le prostitute potevano trovarsi un po’ ovunque dall’Aventino alla Suburra, ogni romano poteva scegliere a seconda dei propri gusti e del peso della propria borsa. Nei quartieri malfamati esse adescavano i clienti e li portavano in squallidi lupanari di infima categoria, sudici e maleodoranti, focolai di molte malattie, per i ricchi clienti erano riservati luoghi eleganti, con musica, banchetti, ed ogni conforto. Il mondo, quello della prostituzione da bordelli di second’ordine, era corrotto e disumano i lenoni erano duri e spietati con le ragazze richieste da qualche cliente. La commedia latina antica ci fornisce molte testimonianze a riguardo, e nel volume ci sono riportati brani delle commedie di Plauto (250-184 a. C) che a continuo contatto con un pubblico voglioso di divertimento anche crasso e realista, sfuggì a ogni imposizione di castigatezza: nelle sue commedie l’insulto frequente e la trivialità delle parole danno vita alla scena, rammentano all’uomo la sua corporeità e la esaltano. Nel teatro da lui rappresentato si muovono prostitute, ruffiani, bettolieri e avventurieri di ogni tipo che vivono con violenta e febbrile partecipazione in quel sottomondo senza luce, vuoto di ideali dove un astuto lenone o una ruffiana con la loro rapacità senza scrupoli tiranneggiano clienti e prostitute spesso esportate da paesi orientali e con le loro furbizie e astuzie raggirano gli ingenui giovani che s’innamorano di una cortigiana e sono pronti a sperperare tutto quel che il padre possiede per finire tra le braccia di una ragazza.

La spregiudicatezza nel trattare argomenti riferiti alla sessualità, dopo Plauto, si manifestò già nel I sec. a.C. in Catullo che sentì l’amore come sofferenza, malattia, i cui sintomi erano avvertiti dal proprio corpo con la perdita della voce, della vista e persino dell'udito, fino alla perdita della conoscenza. Lo sbocciare della lirica amorosa costituì un’autentica rivoluzione. «Per la prima volta si osava parlare d’amore davanti a tutti».

Lucrezio nel finale del quarto libro del suo «De rerum natura» affrontava il tema dello sconvolgimento psicofisico che accompagna il “furor” degli amanti, con una violenta polemica contro la passione d’amore. Egli doveva aver fatto diretta esperienza di quegli slanci e di quegli sconforti, di quel desiderio che cresce dopo ogni illusoria sazietà, di quell’annullamento psichico e di quella disfatta sociale che risultano dal totale abbandono alla passione amorosa. Per lui Eros, così chiamavano i Greci il dio dell’amore e il desiderio amoroso, era un tiranno, una pulsione bruciante che spingeva irresistibilmente verso qualcuno, fino a diventarne schiavo. Lucrezio ricercava invece la serenità del saggio, la pace dell’animo.

Nel passaggio dalla Repubblica al Principato, avvenuto con Augusto, ci fu un nuovo richiamo all’ordine del Principe, che si prefisse di moralizzare i costumi con leggi repressive. Ma la rottura liberatoria era avvenuta già, e difficilmente poteva essere repressa tanto che persino Virgilio e Orazio si concessero moderate incursioni sul terreno della esplicita sessualità o bisessualità. Quanto all’amore, Orazio è già più audace. Oltre ad alcune odi dedicate al suo amore quasi sempre infelice per giovani donne, altre ne scrive, e forse ancora più belle, che esprimono il suo eros “irregolare” con evidente slancio e ammirazione, anche se, com’era nella sua natura, senza dettagli triviali, per giovinetti.

Con i poeti elegiaci Tibullo, Properzio e Ovidio, ancora in età augustea, cambia di nuovo il clima della poesia rispetto ai rapidi spunti erotici presenti in Orazio e Virgilio, ai quali si sostituiscono, almeno nei primi due, lunghe evocazioni di quelle che si usa definire “pene d’amor perdute”; con Ovidio, il più moderno dei tre il clima poetico cambia ancora, e si muta, pur nel ricco catalogo di episodi fortemente erotici, in divertito distacco e persino in humour assai vicino ad un garbato cinismo.Tibullo vuol essere il più compassato, ma riesce soltanto ad essere il più patetico, e a volte persino il più impacciato, almeno nel racconto della sua avventura pederastica con Màrato, e dei tradimenti del ragazzo.

In età neroniana (dopo Augusto si è ormai passati dal Principato all’Impero), Petronio, nel «Satyricon», narrò numerose e spesso grottesche esperienze omosessuali, eterosessuali e vicende di prostituzione dei figli da parte di matrone esperte cacciatrici di eredità mediante collocazione di adolescenti presso ricchi pedagoghi lussuriosi. Gli imperatori stessi, succeduti ad Augusto, furono un pessimo esempio di costumi licenziosi, documentati dal biografo Svetonio.

Seneca condanna il vivere senza freni inibitori, lo descrive per documentare quanto sia diffuso: «Da ogni parte si cerca il piacere. Non ci sono limiti alla manifestazione del vizio», ma è costretto a riportare ciò che è il pensiero comune: «L'unica felicità è godersi la vita: mangiare, bere, consumare il patrimonio nei piaceri: questo è vivere; questo significa non dimenticare che si vive una volta sola. I giorni passano veloci, la vita scorre inarrestabile: perché esistiamo? A che serve essere saggi e temperanti finché verrà il momento in cui non potremo più godere i piaceri, mentre l'età che abbiamo può goderli e li reclama? E perché lasciarci sfuggire ora tutto ciò che la morte ci porterà via per sempre?»

Parlare di amore e di sesso divenne poi sfrontato e irridente nei poeti satirici Giovenale e Marziale di età domizianea, il primo compiaciuto di argomenti lascivi, ma spietato nel disprezzo per gli omosessuali e le donne emancipate e libere nei costumi, il secondo con i suoi epigrammi osceni e il turpiloquio erotico.

Nel II secolo d.C., quando l'impero ha raggiunto il suo apice e si avvia al declino, la morale del piacere puro e semplice non basta più. «L’uomo romano è alla ricerca di un bene più profondo che gli assicuri la vita eterna. Ed è questa nuova esigenza che spinge l’ascendente che il cristianesimo ha avuto sugli spiriti». Per il cristiano la vera vita non è quella che si trascorre sulla terra. È quella del Regno di Dio. È la rivoluzione portata dal Cristianesimo. «In cambio dei piaceri, la morale cristiana offriva la felicità ma questa felicità restava allo stadio di promessa. Ed era necessario morire per sapere e si possedeva tale diritto. Perciò il cambiamento avvenne a fatica, ma avvenne».

Tra i piaceri c’è anche quello estetico per le opere d’arte, gli oggetti preziosi, tutto ciò che è bello. Fin dall’antichità Roma aveva bravi orafi, artigiani che modellavano vasi di terracotta con incise iscrizioni, ma prima di parlare di opere d’arte e di artisti ci volle del tempo. i Romani si occuparono di ingrandire il loro territorio e pensarono alle guerre di difesa e di conquista. Quando invasero l’Italia meridionale vennero a contatto con la ricchezza delle opere d’arte presenti nelle colonie greche che da conquistatori saccheggiarono e portarono a Roma: statue di marmo e di bronzo, pitture, oggetti in oro e argento. Non vi era casa dei personaggi dell’alta società che non possedesse tesori di arte greca ottenute anche con mezzi disonesti. A Roma si accrebbe il piacere estetico di fronte a un’opera d’arte esposta nella propria abitazione. Da Cesare in poi gli imperatori si dedicarono all’arte architettonica, ognuno costruì un Foro arricchendolo di statue, marmi, stucchi, sculture e innalzò templi, biblioteche, basiliche, archi di trionfo e opere monumentali.

Per i piaceri dello spirito e per ricercare la pace dell’animo e la serenità del saggio si ricorse alla mediazione, alla filosofia, soprattutto all'epicureismo, che cercava solo l'eliminazione del dolore e la ricerca della felicità, ma che a Roma fu inteso come un'esaltazione del piacere. Scrittori e poeti, ma anche uomini politici amarono ritirarsi in una villa extraurbana per dedicarsi all’otium creativo, Virgilio tornò alla bellezza della campagna e della natura e cantò la vita pastorale e i suoi semplici piaceri.

Quanto ai piaceri della tavola Robert attraverso la voce di importanti autori latini riferisce che all’espandersi dello Stato e della potenza romana, si mutarono le abitudini alimentari di quella parte della società privilegiata per nascita, cariche politiche, o per censo, frutto di affari della nuova classe imprenditoriale che si stava affermando.

Per gli eccessi e i fasti dei lussuosi conviti di età imperiale e per l’abilità dei cuochi romani Robert ricorre a Petronio di età neroniana; nel suo «Satyricon» dà puntuale testimonianza del cattivo gusto degli arricchiti nella celebre descrizione della Cena barocca e scenografica offerta da Trimalcione, un liberto che vuole stupire i suoi ospiti con un’interminabile serie di portate, una più stravagante dell’altra, presentate con una coreografia teatrale. L’abilità dei cuochi di età imperiale non consiste nella capacità di esaltare i sapori naturali delle pietanze quanto nella maestria di mascherare gli alimenti ricoprendoli con salse e spezie.

L’allestimento di banchetti fastosi diventano una delle occupazioni dominanti e più dispendiose delle classi superiori romane.

Se Petronio narra disincantato e ironico, il contemporaneo Seneca critica la sregolatezza dei costumi, attribuendola alla crisi morale della società, e anche alla perdita della antica parsimonia nelle abitudini alimentari.

Tuttavia già prima, in età augustea, Orazio è disgustato per l’eccesso e la priorità data al piacere del cibo e alla ricchezza, e la sua voce si leva per consigliare la misura in ogni scelta. Ribadisce il suo ideale di vita semplice e modesta. Livio, storico d’età augustea, denuncia l’ingresso in Roma del simposio greco orientale come una delle manifestazioni di corruzione dei costumi morali a Roma. Ovidio critica il lusso della tavola e ricorda i tempi passati nei quali vige la frugalità.

Robert ci aggiorna sulla misera fine di Apici un patrizio gaudente vissuto nell’età dell’imperatore Tiberio. Era un buongustaio, appassionato di particolarità gastronomiche, il più grande tra tutti gli scialacquatori di cui Seneca narra che si era tolto la vita quando si era accorto che il suo patrimonio, ridotto a soli cento milioni di sesterzi, non gli avrebbe consentito più di mantenere il tenore di vita cui si era abituato

Anche Giovenale nelle sue Satire mostra la degradazione del presente rispetto all’antichità. Il suo ideale è quello catoniano, della probità e rudezze contadine, della ostilità alle raffinatezze della civiltà metropolitana fortemente influenzata dalla moda ellenistica e orientale. Modelli da biasimare sono molti, soprattutto i golosi.

L’allestimento di banchetti fastosi diventano una delle occupazioni dominanti e più dispendiose delle classi superiori romane, tanto da far dire a Giovenale che i romani «vivono in un perpetuo baccanale».

«I Piaceri a Roma» è un saggio ricco di notizie, riflessioni storiche e filosofiche di cui abbiamo parlato solo in parte, ma leggerlo è una scoperta per chi ami il mondo antico romano. È arricchito, nelle ultime pagine, da una utile Cronologia: dall’epoca dei re di Roma (753 a. C.) alla fine dell’Impero romano d’Occidente (476); da un’interessante Appendice con Indice biografico dei personaggi trattati nel volume; Bibliografia; Elenco delle opere di quegli autori da cui sono tratte citazioni; Indice dei nomi. Il volume è anche illustrato da immagini di affreschi, luoghi, scene di film, ritratti, purtroppo in bianco e nero, soprattutto gli affreschi pompeiani avrebbero avuto un maggiore risalto se fossero stati riprodotti a colori, ma una visita a Pompei per vederli dal vivo ce li mostrerebbe in tutto il loro splendore.

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