Recensione del libro: Fake news dell’antica Roma, di Nestor F. Marqués.
di Maria Pellegrini.
«Oggigiorno le fake news, le bufale, sono sempre più diffuse. La loro proliferazione mi incentiva di più a demistificare l’antica Roma e mostrare che anche i Romani erano vittime di questo fenomeno», scrive Nestor F. Marqués nella Prefazione del suo recente volume Fake news dell’antica Roma, con sottotitolo “2000 anni di propaganda, inganni e bugie” (ed. Bibliotheka, 2020, pagg. 456, € 18,00).
Marqués prende in esame le vicende storiche di Roma - dalle origini alla caduta del suo impero - per smascherare le falsità che hanno deformato la realtà dei fatti. Alcuni personaggi sono stati rappresentati dagli storici dell’antichità e dagli scrittori contemporanei in modo profondamente distorto; si tratta di resoconti non intenzionalmente falsificati o manipolati, ma espressione delle proprie convinzioni o punto di vista che sarà diverso a seconda se a scrivere è un rappresentante dei vincitori, dei nemici vinti, o di un interprete contemporaneo dei fatti tramandati dalle fonti antiche. Ricostruire le vicende in modo più vicino alla realtà rispetto a come ci sono state raccontate è lo scopo che si è prefisso Marqués. Per mettere in evidenza il metodo rigoroso con il quale sono analizzati i fatti e la loro rilettura che ne segnala le distorsioni tramandate dalla storiografia ufficiale, prenderemo in esame soltanto alcune delle numerose mistificazioni di avvenimenti analizzati dall’Autore nel suo corposo volume.
Tra le vicende di Roma accadute nei primi anni dopo la sua fondazione, a tutti è noto il “ratto delle Sabine”. Per lo sviluppo demografico della città dove erano affluiti soprattutto uomini, le donne era poche, la stirpe romana rischiava di durare una sola generazione. Le donne erano «uno strumento necessario per dare alla luce nuovi uomini e perpetuare la stirpe romana». Romolo, il primo re, ricorse all’inganno: invitò i popoli vicini ai festeggiamenti che si svolgevano a in onore di Conso un’antica divinità protettrice del grano, ma quando questi, in maggior parte i Sabini, erano intenti agli spettacoli, i giovani romani rapirono a forza le donne senza che gli uomini potessero difenderle. Questo episodi provocò ripetute guerre tra i due popoli. Secondo Romolo le donne dovevano essere felici (l’opinione delle rapite aveva poca importanza!) erano sposate da uomini che le avrebbero amate e con esse avrebbero formato una famiglia.
«Questa storia edulcorata da diversi autori classici - suggerisce Marquéz - nasconde sicuramente una realtà arcaica: i saccheggi ai danni di piccole popolazioni e lo stupro e rapimento di ragazze». Le donne rapite furono la causa della guerra che si scatenò tra Romani e Sabini, ma saranno loro stesse a spingerli a trattare per la pace: la conquista violenta e forzata delle donne si trasformò in una relazione stabile, il matrimonio “generosamente” concesso dai Romani. Le protagoniste della leggenda sono in realtà «donne sottomesse che accettano il loro destino e serviranno da modello per le spose romane che verranno dopo di loro».
Altro episodio è la storia di Lucrezia: violentata dal figlio del re Tarquino il Superbo, si uccise e provocò la ribellione del popolo contro la tirannia del re che fu cacciato dalla città. L’episodio pose fine alla monarchia. Fu una donna a morire per un crimine non commesso ma il suo sacrificio suscitò l’odium regni della società romana da allora in poi. «Solo così Lucrezia poteva liberare il marito dal disonore in modo da permettergli di vendicare quella atrocità; […] La gravità del castigo autoimposto eleverà Lucrezia e la trasformerà nel modello della romana perfetta», commenta Marqués che conclude: «La storia di Lucrezia è l’ennesima leggenda moralizzante che aveva l’obiettivo di glorificare e ingigantire le origini di Roma».
Livio riporta molti di questi episodi del passato glorioso, immergersi nella contemplazione della virtù degli antichi è anche un rifugio confortante per lo spirito e distrae il suo animo dai mali del presente. La storia - come già per Cicerone che la considerava magistra vitae - per Livio ha uno scopo di ammaestramento morale, deve fornire gli esempi di ciò che si deve imitare o evitare.
Con un salto di secoli arriviamo al Principato e ai Principi, ai reggitori dell’Impero, dei quali già gli scrittori contemporanei e poi molti altri lasciarono un ritratto non sempre veritiero, spesso contraddittorio, con toni accesi dettati da pregiudizi, odio, adulazione. Per riportare queste loro biografie a «un’immagine realistica e umana» lontana dai miti che sono stati tramandati nel tempo, Marqués ritiene necessario «confrontare le fonti scritte, archeologiche e iconografiche». Sfilano sotto il suo attento esame le biografie dei dodici Cesari di cui scrisse Svetonio, più di un secolo dopo, con un evidente piacere da collezionista: le notizie scandalose sulla vita privata dei Principi si affiancano in bell’ordine alle loro qualità positive, alle loro iniziative edilizie, o imprese militarie lodevoli. Insomma, una fonte preziosa, anche se talvolta inquinata da rivelazioni di ogni genere. Le vicende biografiche seguono tutte lo stesso schema: prima la genealogia, la data di nascita, poi la carriera, i pregi, i difetti, i vizi, le onorificenze, la fisionomia, le malattie, la morte e i prodigi che l’hanno preceduta o seguita. Ma nell’opera svetoniana non c’è storia e non c’è vera biografia. I ritratti sono spesso privi di attendibilità.
Le fonti sono esaminate da Marquès tenendo sempre presente che «la storia è formata da fatti, ma anche da inganni, propaganda e menzogne che svelano le opinioni e le idee di chi la scrisse», e riguardano i più noti scrittori dell’antichità, greci e latini: Livio, Tacito, Cassio Dione, Plutarco, Valerio Massimo e molti altri elencati nelle pagine 422-424 del volume.
Di Cesare si ripercorre tutta vita attraverso il racconto tramandato dagli storici fino alla morte alludendo e puntualizzando quando si ritiene che la narrazione non è del tutto attendibile, come nella storia del suo rapimento da parte dei pirati, simile a «quelle storie familiari che vengono abbellite e modificate a ogni passaggio per diventare infine dei miti, lontani dalla realtà». Anche quello che si diceva fosse avvenuto nel suo soggiorno da giovane in Bitinia, cioè che avesse avuto una relazione omosessuale con il re Nicomede e fosse stato sodomizzato da lui, non è chiaro se fosse una diceria malevola diffusa dai suoi nemici per screditarlo, ma rimane il fatto che Cesare quando sentiva raccontare questa sua “colpa” giovanile che per i Romani era infamante se il ruolo dell’uomo fosse passivo, si infuriava molto come chi è accusato ingiustamente sebbene non si preoccupò di respingere tali voci.
Sulle parole pronunciate quando, assalito dai congiurati, vide tra loro Bruto, non tutti sono concordi sul fatto che abbia detto quella frase che gli si attribuisce “Tu quoque, fili mi ?” Intanto la frase latina tramandata non fu mai pronunciata da Cesare ma creata molti anni dopo. Se pure la pronunciò la disse in lingua greca καὶ σύ, τέκνον come riferiscono Svetonio, Cassio Dione e Dionigi di Alicarnasso; Plutarco non riporta che abbia detto qualcosa. Comunque quelle parole dette alla vista di Bruto che alzava il pugnale per colpirlo, furono male interpretate: τέκνον in greco significa sia figlio sia persona particolarmente cara e si suppone che Cesare l’abbia voluto usare in tal senso anche per sottolineare lo stupore di vedere un giovane, a lui caro quasi come un figlio. pronto ad ucciderlo. Ma gli storici diffusero anche la notizia che fosse davvero suo figlio avuto da una relazione con la madre di Bruto.
La narrazione prosegue con le vicende riguardanti Augusto, primo princeps di Roma e fondatore dell’impero. Livio è testimone privilegiato di questo passaggio epocale. Pur intrattenendo con Augusto un rapporto amichevole, la sua adesione al regime è fortemente critica: esprime con lucida severità il giudizio sulla decadenza dello stato che «soffre della sua stessa grandezza». Ma Augusto soprattutto dopo la sua morte fu idealizzato e furono nascosti gli aspetti meno conosciuti della sua persona. La propaganda politica ebbe un ruolo cruciale nel nascondere il lato umano del Princeps con i suoi vizi e difetti e nel presentarlo anche nelle immagini sempre giovane e bello. Se il suo principato si trasformò in impero ereditario fu soprattutto grazie a sua moglie Livia, che passò alla storia come malvagia e assassina, sospettata di aver eliminato tutti quelli che avrebbero ostacolato l’ascesa al potere imperiale di suo figlio Tiberio. Marqués riscatta Livia da tutte le accuse: «É il momento di smascherare vecchie bugie e di conoscere la vera storia della prima donna che riuscì a ricoprire un ruolo più importante di quello di molti uomini di Roma».
I suoi successori sono passati al vaglio attraverso i momenti cruciali delle loro vite con questo intento: «Nel nostro viaggio alla scoperta degli uomini che si nascondevano dietro a questi personaggi abbiamo voluto gettare una nuova luce sulla loro personalità […], cercando di evitare una lettura semplicistica e ingenua delle fonti e proteggerci così dal contagio degli errori del passato». Per Marqués, Augusto «non era quel modello di virtù che si voleva far credere», «l’oscuro Tiberio probabilmente non era un mostro senza scrupoli» come fu dipinto da molti storici, ma un governante mediocre che dovette subire sempre il confronto con Augusto; «il furioso e crudele Caligola» fu accusato senza prove di aver avuto rapporti incestuosi con le sorelle e della storiella che avesse eletto senatore il suo cavallo riportata da fonti popolari non c’è traccia negli storici; «lo stolto Claudio non aveva prestanza fisica ma non era uno sciocco», anzi era intelligente e colto. Durante il suo regno ottenne molti risultati: conquistò la Britannia e amministrò con rigore i beni imperiali, fu un buon governante soprattutto se paragonato a chi venne dopo di lui, Nerone. Capace di ogni nefandezza, presentato come un mostro dai poteri illimitati, Nerone, fu accusato di aver procurato l’incendio di Roma ma ciò non risulta da fonti autorevoli come Tacito. Che poi come capro espiatorio fossero accusati i cristiani anche Tacito lo conferma, ma ciò dipendeva dal disprezzo che si aveva per chi aderisse a questo culto. Marqués esaminando la vita e le imprese di questo odiato e ultimo della dinastia Giulio Claudia, «vuole arrivare a un punto di incontro tra notizie false e realtà».
I quattro imperatori seguiti a Nerone: Galba, Otone, Vitellio, Vespasiano, si massacrano a vicenda lasciando vivo Vespasiano, «governatore dal pugno di ferro della riottosa provincia giudaica»; il figlio Tito governò solo due anni ma fu così saggio da meritare il titolo di “delizia del genere umano”; «il disumano Domiziano» si fece chiamare dominus et deus ma «non era un megalomane pazzo, avido e assetato di sangue» come viene descritto anche in fonti autorevoli che però scrissero sotto gli imperatori Nerva e Traiano considerati gli imperatori che permisero a Roma di entrare in un’epoca di benessere.
Nel 96, alla morte di Domiziano, terzo e ultimo dei Flavi, l’aristocrazia senatoria portò al potere l’anziano senatore Cocceio Nerva, che iniziò la serie degli imperatori adottivi (Traiano, Adriano, Antonino Pio, Marco Aurelio,) sotto i quali l’impero conobbe un periodo di maggiore stabilità e prosperità economica senza più soffrire troppo il travaglio della lotta tra Principe e Senato.
Nerva, non avendo figli, adottò Traiano, allora governatore della Germania, che all’atto stesso della sua adozione (nell’autunno del 97) fu designato alla successione.
La propaganda annunciava che sarebbe salito a governare l’impero «un monarca generoso e assennato, l’ideale perfetto, diverso da chi lo aveva preceduto». Molti scrittori arrivarono a distorcere l’immagine dei suoi predecessori «sfruttandone i difetti e amplificandoli o addirittura inventandoli di sana pianta». Famoso il Panegirico di Traiano scritto da Plinio il Giovane che lo rappresentava come «una rottura totale fra un presente glorioso e un passato indegno». Eppure questo imperatore amante della giustizia bandì una nuova persecuzione contro i cristiani, secondo gli editti dell’odiato Domiziano, quantunque fossero stati revocati da Nerva.
Con Traiano torna il problema della sicurezza dell’impero: allontanare dalle province danubiane il pericolo dei Daci. Marqués ricorda tutte le campagne di conquista di questo imperatore. Ma la grande fama di optimus princeps gli venne molto dalla propaganda che celebrò le sue imprese senza fare cenno al costo smisurato e insensato, tanto che Adriano, che succedette a Traiano, fu obbligato a far arretrare i confini e ciò per lui fu molto impopolare. Anche gli spettacoli che Traiano organizzò per celebrare la vittoria sui Daci furono costosissimi ma attirarono la simpatia del popolo. Cassio Dione ricorda che le feste durarono 123 giorni, diecimila gladiatori si batterono fra loro e undicimila animali furono usati per gli spettacoli nel circo di combattimenti tra uomini e belve.
La tradizione ci ha lasciato un’immagine tutta positiva di questo imperatore che riuscì a ottenere il potere assoluto portando avanti le politiche dei suoi predecessori seguendo la stessa strategia, la manipolazione della realtà attraverso la propaganda, applicata anche «in questa nuova Roma degli imperatori ‘buoni’ che aveva appena avuto inizio».
Adriano, parente di Traiano e da lui adottato, è fin troppo noto e Marqués non gli dedica molto spazio, mette in risalto alcune caratteristiche della sua politica, amava essere considerato un uomo pacifico contrario alle guerre. Si preoccupò di restaurare molti monumenti, di abbellire Roma, di fondare città nei territori dell’impero, ma di tutte le vicende biografiche quella più raccontata è l’amore per il giovane Antinoo, che dopo la morte misteriosa - si disse un rituale magico - fu divinizzato. Anche Adriano ricorse al metodo dell’adozione, non aveva figli e scelse Antonino Pio a patto che lui a sua volta adottasse come suoi successori Lucio Vero e il futuro Marco Aurelio.
Antonino Pio continuò l’opera di Adriano nell’assicurare i confini dell’impero, lasciò al senato grande libertà nel governo dello stato. Marco Aurelio, l’imperatore filosofo, seguì il suo esempio. Sebbene amasse la pace dovette affrontare guerre contro i Parti e popolazioni germaniche i Quadi e i Marcomanni. Il figlio Commodo affiancò il padre nelle ultime guerre. Succeduto a lui si mostrò un tiranno depravato rinnovando le follie di Nerone, Caligola e Domiziano. Morì durante una congiura ordita contro di lui. Ebbe inizio la dinastia dei Severi «che governò 40 anni e si servì della propaganda per avere il consenso».
Con la scomparsa dell’ultimo rappresentante di questa famiglia, Alessandro Severo, «morì l’ultimo degli imperatori cosiddetti civili ed ebbe inizio un periodo di regnanti sostenuti dall’esercito e che, in molti casi, furono uccisi pochi mesi prima dopo essere saliti al trono». È il periodo della cosiddetta “anarchia militare” che sfociò infine nella tetrarchia di Diocleziano, un sistema nuovo per la storia di Roma che vide una lotta per il poter ancora più accanita. Siamo arrivati al 306 i due imperatori Massenzio e Costantino si contendevano entrambi l’Occidente, ma in uno scontro nel 312 vinse Costantino, di cui soprattutto le fonti di autori cristiani parlano riportando le sue supposte visioni e sogni premonitori divenuti leggendari. L’imperatore nel 313 pubblicò il famoso editto di tolleranza religiosa: chiunque poteva professare la propria fede senza essere perseguitato. Anche su questo imperatore dipinto come il migliore di tutti, è probabile, suppone Marqués, «che la persona che si celava dietro a tutte quelle lodi fosse molto lontana dall’essere perfetto». Quello che è certo che su Costantino nacquero molte leggende che favorirono la diffusione della religione cristiana. «La propaganda religiosa è stata sempre un elemento fondamentale per la Chiesa» afferma Marques, considerando che «solo così è riuscita a passare dall’essere una piccola setta scissa si dall’ebraismo alla religione più professata del mondo».
Nel volume si analizzano anche altri aspetti della società romana: la superstizione di fronte ai prodigi che spesso potevano essere riconducibili a fenomeni naturali ma furono interpretati come avvertimenti degli dèi ai quali fecero sacrifici. Sono raccontati eventi portentosi intorno ai quali si crearono numerose leggende che «riflettevano non solo la paura dei cittadini ma anche la speranza – se non l’imperiosa necessità religiosa – di rimediare alle offese nei confronti degli dei».
Anche sul calendario romano sono raccontate menzogne costruite dai Romani stessi che ne fecero risalire le origini al tempo dei re «in modo da rivestirlo di un’aura di misticismo e maestosità». Un intero capitolo tratta questo argomento con le varie divulgazioni di notizie errate riportate dagli storici antichi.
Marqués modestamente si definisce “divulgatore della storia romana”, ma si dimostra uno studioso appassionato e rigoroso: ha letto con attenzioni gli storici più importanti della gloriosa storia di Roma, cogliendo gli aspetti della loro narrazione non veritieri, dettati da scopi propagandistici, ha arricchito il volume con una sapiente Prefazione, un’esauriente Bibliografia, preziose Genealogie delle famiglie imperiali, Indice di nomi e Ringraziamenti rivolti a chi lo ha aiutato nel suo lavoro.
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