Paesaggi crepuscolari, distese infinite, freddo, caldo, luci del tramonto e dell’alba e spesso, nello sfondo, una bandiera a stelle strisce che sventola in solitudine da camper o edifici sperduti.

Sono questi gli ambienti nel quali si muovono i “nuovi viaggiatori” di Nomadland, film pluripremiato nei recenti Oscar dell’Academy (basato sul libro di Jessica Bruder). Ma soprattutto è lei, Fern, la protagonista di questa pellicola, mirabilmente interpretata dalla premiata e bravissima Frances McDormand, a muoversi in questa disincantata e poco romantica America della post recessione, che diviene il simbolo della condizione umana nel occidente del ventunesimo secolo, dove per molti ciò significa povertà, precarietà, disoccupazione e instabilità di vite vissute border line o fuori da tutto. Fern perde in un sol colpo marito e lavoro, lasciando alle spalle la città industriale di Empire in Nevada, durante la crisi della grande recessione che ha colpito gli Stati Uniti dal 2007 in poi. Scompare la stessa Empire a cui viene cancellato persino il CAP dagli elenchi e dalle mappe. Fern acquista un furgone che diviene la sua casa, il suo nuovo “tetto” come lei stessa tiene a precisare in una celebre battuta del film. E, per sua scelta o per necessità, con questo mezzo gira l’America dei diversi paesaggi: dal freddo del Nevada al deserto dell’Arizona. Nel suo girovagare, Fern vive di lavori saltuari tra cui emerge anche un lavoro stagionale in Amazon, con la prima volta che probabilmente una cinepresa del cinema entra dentro il sistema e la catena produttiva della celebre multinazionale. In questo spostarsi continuamente, Fern incontra un’umanità varia, simile a lei, che vive anch’essa a metà strada tra scelta e necessità. Persone che non hanno più un lavoro fisso e che si incontrano ai bordi delle strade come “moderni nomadi” in cerca di qualcosa di sicuro per tirare avanti. Ed ecco che allora le riprese a campo lungo dei bellissimi paesaggi americani, sulle note di un’azzeccata colonna sonora di Ludovico Einaudi, si alternano alla dura quotidianità dei lavori e della lotta alla sopravvivenza di Fern e delle altre vite che vivono emarginati dal sistema economico, ma che di questo non ne possono fare a meno per vivere, seppur come elementi perlopiù passivi, sfruttati e malpagati. Una condizione che però, paradossalmente fa emergere la humanitas e il calore di tante piccole azioni quotidiane di solidarietà, di sguardi, di gesti e di sentimenti che emergono nei dialoghi e nelle scene tra le figure di questo splendido film. C’è anche molta disillusione in Nomadland, nonché molta malcelata critica al sistema economico e capitalistico moderno che cannibalizza l’uomo facendolo diventare strumento intercambiabile nel sistema di produzione come un qualsiasi oggetto di lavoro: lo utilizzo quando mi serve per poi accantonarlo. E non siamo azzardati nel dire che, in tal senso, la regista Chloé Zhao riprenda più o meno apertamente la lezione cinematografica che parte dal Chaplin di Tempi Moderni per passare ai film di denuncia di registi come Ken Loach. Ovviamente questo è uno degli aspetti presenti in questo film, anche se non secondario. Dicevamo qui sopra, invece, dell’attrice che interpreta Fern, ovvero quella Francis McDormand la cui prova di recitazione in questo film è commovente e perfetta; ponendo l’artista tra le migliori presenti negli ultimi anni (la ricordiamo anche per prova di spessore nel precedente “Tre Manifesti a Ebbing Missouri”). L’indugiare spesso della camera sui primi piani del volto della protagonista, fa ancora di più apprezzare le capacità non solo recitative ma anche espressive della McDormand che spesso riesce a “parlare” più con il volto che con le parole. Tornando all’analisi del film, a nostro parere, la figura di Fern è allo stesso tempo un elemento di rottura con il sistema moderno, nel momento in cui la protagonista decide volontariamente di continuare la sua nomade esistenza ponendosi al di fuori del moderno “gioco” del sistema stesso, quello della stabilità e dell’ordine precostituito, ma riacquistando una sorta di libertà, indipendenza e ribellione con il suo infinito viaggio nelle terre americane attraverso il suo furgone. Seppur la sorella ed un potenziale nuovo compagno di vita, conosciuto nel perenne peregrinare, la invitino a ritornare ad una esistenza più “stabile”, Fern decide, o meglio, si rende conto che con ciò rinuncerebbe a molto del suo essere uno spirito libero, non allineato e non assoggettabile a nessun schema. Una sorta di moderno pioniere americano, come viene detto in un dialogo del film, che però non ha più la pretesa di trovare nessuna terra promessa. Qui, infatti, non troviamo nessun ottimismo nella libertà alla Easy Rider, tanto per semplificare il discorso. Anzi troviamo anche egoismo ed individualismo della protagonista di sopravvivere sopra tutto e tutti dentro ad un sistema economico e sociale ben definito. L’America trumpiana, ma anche quella precedente politically correct di Obama, tanto per dare due riferimenti storici, da questo film emerge nel pieno delle sue contraddizioni e della sua malcelata ipocrisia, dove oggi più che mai il divario tra poveri e ricchi si è fatto più netto, fagocitando sempre più in tutto il mondo occidentale la cosiddetta middleclass, con una società produttiva spinta oltre i limiti e le sue storture, dove il bianco è ritornato ad essere più bianco ed il nero più nero. Dove ancora tutti noi ne siamo dentro senza renderci conto, soprattutto in questi incerti e ancor più instabili tempi dettati dalla pandemia mondiale. Dove tutti possono divenire improvvisamente moderni nomadi come Fern, se non le nostre vite sono già di per sé più precarie e “senza fissa dimora” nella nostra interiorità e quotidianità da tempo, più di quello che noi pensiamo. In tal senso ed anche in altri, Nomadland è un film da vedere. Un affresco dei nostri tempi moderni, un monito ed un insegnamento che la magia del cinema ci riporta in tutta la sua lucida realtà.

Immagine: lecita riproduzione, fonte https://en.wikipedia.org/w/index.php?curid=64969367.
 

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