di Maria Pellegrini.

Verre, governatore della Sicilia dal 73 a. C. aveva sfruttato la provincia con incredibile rapacità. Terminato il suo mandato, nel gennaio del 70, ben sessantaquattro città dell’isola, saccheggiate e stremate dalla sua cupidigia, decisero di ricorrere al Foro Romano per intentare contro di lui una causa per corruzione e concussione affidando a Marco Tullio Cicerone il patrocinio dell’accusa.

Verre costituiva un caso tutt’altro che isolato, i governatori delle province (carica affidata ai “propretori”) e gli alti gradi dell’amministrazione periferica spesso approfittavano della propria posizione per danneggiare le popolazioni soggette a Roma. Era costume diffuso depredare tesori d’arte e arricchirsi con ogni mezzo lecito e illecito che consentisse loro di ripagarsi le enormi spese sostenute per la candidatura. La Sicilia era considerata il granaio della Repubblica, la produzione cerealicola siciliana era per Roma di vitale importanza, e il grano era considerato nell’antichità quello che è il petrolio nel mondo di oggi.

Luca Fezzi, professore di Storia Romana presso l’Università di Padova e autore di numerosi studi su importanti vicende della storia della Roma repubblicana, ha ricostruito in modo avvincente e con pertinenti citazioni lo svolgimento del processo che fece tremare il mondo politico romano nel suo volume Il corrotto con sottotitolo Un’inchiesta di MarcoTullio Cicerone (Laterza editore, pp. 237, € 18, 00).

Un magistrato in carica, in questo caso Verre, godeva di molti privilegi tra i quali l’immunità giudiziaria; per questo durante i tre anni nessuno aprì indagini sul suo conto ed egli non temeva di poter essere accusato una volta divenuto privato cittadino perché con tutto il danaro da lui raccolto avrebbe potuto comprarsi i giudici. Lo dichiarava apertamente come documenta Cicerone:

«Posso provare con molti testimoni che Gaio Verre in Sicilia fece spesso le seguenti dichiarazioni alla presenza di molte persone: conosceva un uomo potente e confidando in lui saccheggiava la provincia; non cercava denaro per sé, ma per quel triennio di governo della Sicilia aveva un programma tale per cui, diceva, gli andava benissimo se riusciva a trasferire nel proprio patrimonio il profitto del primo anno, a consegnare ai suoi avvocati difensori quello del secondo e riservare per i giudici tutto il terzo anno, che era stato il più abbondante e redditizio».
(“Verrine”, I, 40)

Cicerone in tribunale usò una astuta tattica: passare subito all’attacco per sventare manovre dilatorie e mostrare con precise testimonianze e documenti che nei suoi tre anni in Sicilia Verre aveva commesso ogni genere di azioni contro la legge: peculato, concussione, appropriazione indebita, manipolazione di appalti, brogli elettorali, violenza. Rivolgendosi ai giudici con sfoggio di eloquenza sottolineò l’importanza politica del processo, mostrò che nei suoi tre anni in Sicilia Verre aveva ammassato l’enorme somma di 40.000.000 di sesterzi. Per Cicerone il processo offriva al Senato l’opportunità di riacquistare credito di fronte all’opinione pubblica, mediante una condanna esemplare che ristabilisse la fiducia dei cittadini nei confronti della giustizia. Leggiamo le parole pronunciate dall’accusatore e riportate da Fezzi:

«Questo è il processo in cui voi giudicherete l’imputato, il popolo romano giudicherà voi. Con quest’uomo si stabilirà se è possibile, con una giuria formata da senatori, condannare un individuo gravemente colpevole e molto danaroso. […] Qualora sia assolto, non può restare nessun altro sospetto se non quello che è il più vergognoso di tutti».
(“Verrine”, I, 47).

Fezzi ricorda quanto tutti i governatori approfittassero durante il governo di una provincia per arricchirsi, anche Cicerone aveva confessato all’amico Attico di avere depositato ben 2.200.000 sesterzi dopo gli anni del suo governo in Cilicia e che «Verre era andato in provincia - anche - per rubare. Tale realtà doveva essere nota a tutti: sarebbe stata anche accettata, se solo non avesse oltrepassato i limiti della decenza».

Per arginare la corruzione e porvi un freno già nel 149 a.C., la “lex Calpurnia”, sanzionava il “crimen repetundarum”, cioè l’estorsione, e la captazione di doni da parte di magistrati che li sottraevano alla comunità e nell’81 fu la volta della “Lex Cornelia de repetundis” che forniva ai provinciali gli strumenti giuridici per recuperare quanto i governatori romani avevano loro ingiustamente estorto.

Per raccogliere testimonianze Cicerone si era recato in Sicilia, incontrò gli abitanti, delle principali città e delle campagne. Dapprima non fu facile trovare persone disposte a testimoniare, ma poi dai colloqui con gli isolani ebbe notizie di brogli, concussione, peculato, tangenti, vendita di posti e cariche, corruzione dei giudici, esecuzioni di chi osasse ribellarsi ai soprusi. Conobbe quali fossero i complici dell’imputato e li descrisse come una cricca pericolosa.

Fezzi nella sua narrazione ci presenta non solo Cicerone, «instancabile raccoglitore e orchestratore di testimonianze e di prove», ma prende in esame il contesto politico e rievoca l’atmosfera dell’inchiesta giudiziaria e l’abilità dell’avvocato difensore, il migliore che si potesse desiderare: Quinto Ortensio Ortalo, «il re delle cause», dotato di una «memoria straordinaria» e con «una voce sonora e gradevole».

Cicerone pronunziò soltanto due orazioni delle sette che poi scrisse intitolate in Verrem (contro Verre) e dette anche Verrine. La prima la Divinatio in Q. Cecilium per smascherare il tentativo della difesa di far sostenere l’accusa da Quinto Cecilio, che era stato questore di Verre e la seconda Actio prima in Verrem per illustrare tutti i capi di accusa che furono tanto evidenti che il difensore Ortensio, nonostante avesse ricevuto dall’imputato in regalo una sfinge in bronzo di grande valore, non sembrò di essere riuscito a usare la sua abile arte. Verre preferì allontanarsi di nascosto provvedendo prima a far sparire dalla sua casa le statue e gli oggetti preziosi. Quando si ebbe notizia della sua fuga «in Sicilia avvenne il finimondo; appena il propretore si fu imbarcato, in varie città si verificarono tumulti spontanei» e le statue dedicategli nel triennio «furono abbattute o rimosse, lasciando spesso, a voluta testimonianza, ormai vuoti piedistalli iscritti». Leggiamo nel testo delle “Verrine” di Cicerone che rivolto ai giudici e all’imputato ormai in fuga, asserisce di aver visto con i propri occhi quanto accadde:

«Si è mai udito che a qualche altro governatore sia accaduto ciò che è accaduto a te, che in “provincia” le sue statue collocate in luoghi pubblici, alcune anche in edifici sacri, venissero abbattute a furor di popolo? vi furono tanti governatori colpevoli in Asia, tanti in Africa, tanti in Spagna, Gallia, Sardegna, tanti proprio in Sicilia, ma di chi avete mai udito qualcosa del genere? È’ una novità, giudici, e che sia accaduta tra i Siciliani, ha dell’incredibile».
(“Verrine”, II, 2,158)

Verrebbe ora da esclamare: «Niente di nuovo sotto il sole» e facilmente scivolare nel qualunquismo, nell’astensionismo, nell’allontanamento dalla politica e dalla partecipazione, nella mancanza di fiducia nelle istituzioni pubbliche, nei partiti, constatando che in ogni età gli uomini sono preda dell’ingordigia e il denaro domina su ogni altro principio e valore.

Fezzi però non si lascia tentare dalla deriva moralistica propria di tante pubblicazioni odierne che fanno delle vicende negative dell’antichità romana uno specchio delle nostre imperfezioni e vizi. Indurre il lettore a stabilire analogie o differenze con la contemporaneità è per Fezzi «una pratica pericolosa che lo studioso cerca di limitare, concentrandosi piuttosto sul processo spettacolo, sulla figura del corrotto Verre, ritratto a forti tinte per suscitare l’indignazione dei giudici e analizzare soprattutto l’operato di Cicerone e chiedersi: «Quanto artificiale fu quello spettacolo che intrattenne per giorni il popolo di Roma?» Per Fezzi il processo a Verre era «preparato da tempo era il processo alla vecchia classe dirigente, ormai incapace di esercitare un ruolo egemone».

Il volume è arricchito da una “Cronologia del processo”, una ricca “Bibliografia” commentata con interpretazioni e approfondimenti, un’interessante “Appendice” dove sono elencate le numerose e agghiaccianti testimonianze relative ai crimini dell’imputato: crocifissioni di cittadini romani, furti di oro e di oggetti preziosi dai templi e dalle case, omissioni nelle registrazioni delle spese, estorsioni per ottenere testamenti in suo favore e ogni altro genere di nefandezze decisive per la condanna di Verre.

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