Recensione, ANNIBALE di GIOVANNI BRIZZI
di Maria Pellegrini.
La figura di Annibale è stata da molti anni al centro dell’interesse di Giovanni Brizzi, che ha insegnato Storia romana nell’Università di Bologna ed è autore, tra le numerose sue pubblicazioni, anche di otto monografie su personaggi della Roma repubblicana.
È a tutti noto che Amilcare, sul punto di partire per le campagne militari in Spagna, indusse il figlio Annibale, di soli nove anni, a giurare numquam amicum fore populi romani, «che mai sarebbe stato amico del popolo romano», un impegno che nel ragazzo, divenuto adulto, fu avvertito come un’eredità morale da rispettare. Prima di narrare questo episodio forse leggendario, Brizzi nel suo “Annibale” pubblicato dall’editore “il Mulino” (pp. 175, € 12,00) ricorda la storia di Cartagine, le cui origini risalirebbero all’814 o al 862 a. C. secondo alcuni storici, ma sicuramente alla fine dell’VIII secolo risalgono i primi reperti della sua presenza. È ricordata anche la mitica fondazione da parte Elissa (poi chiamata con il nome più noto di Didone che troviamo nell’ “Eneide” di Virgilio), una principessa profuga da Tiro, fuggita per non incorrere nella violenza del fratello che le ha ucciso il marito e usurpato il regno. Seguono notizie della famiglia di Annibale, la più antica di Cartagine, il cui capostipite passò alla storia con il soprannome Barca, con cui furono chiamati tutti i discendenti. Prima di entrare nel vivo delle guerre puniche un altro capitolo è dedicato alla fanciullezza del futuro comandante cartaginese e all’educazione ricevuta che non si limitò alla cultura punica interessata soprattutto allo studio delle lingue necessarie per le attività commerciali, ma anche a quella greca per la formazione culturale e militare dei futuri condottieri.
Alla morte del padre, Annibale, a soli venticinque anni, assunse i pieni poteri come responsabile del teatro di guerra iberico. Siamo nella seconda guerra punica, la cui causa occasionale era stata l’assedio e la presa di Sagunto, città alleata dei Romani, da parte di Annibale nel 219. Il Cartaginese decise di attaccare Roma nel suo stesso territorio e arrivare via terra in Italia sollevando contro di essa i Galli e le popolazioni italiche. Partito dalla Spagna, attraversò le Alpi con 30 mila fanti, diecimila cavalieri e 37 elefanti per sorprendere l’esercito romano. Era la primavera dell’anno 218. La sua mossa, del tutto imprevista, vanificò il piano strategico dei Romani che - come ricorda Brizzi - «si erano illusi di andare ad affrontarlo nella Spagna meridionale e, contemporaneamente, con una gigantesca tenaglia, di poter invadere il territorio africano». Annibale invece prese la via delle Alpi che valicò in un passo non ancora ben identificato, forse in corrispondenza del piccolo Moncenisio o in un altro presso il Monviso.
A proposito di questo valico, viene in mente il racconto dello storico Polibio che riporta questo episodio: Annibale, arrivato a 3000 metri di quota con i monti coperti da nevi perenni, fatti fermare i soldati su un promontorio, da dove la vista spaziava largamente, mostrò loro l’Italia, e ai piedi delle Alpi la pianura Padana, dicendo che «essi superavano allora non solo le mura d’Italia, ma della stessa città di Roma, e che tutto il resto sarebbe stato agevole e piano, che con una o al massimo due battaglie avrebbero avuto nelle loro mani la rocca e la capitale d’Italia».
Secondo alcuni storici Annibale non era solo un abile tattico, ma anche uno straordinario stratega che teneva conto degli effetti psicologici che potevano suscitare le sue scelte. Nonostante la grande difficoltà per giungere in Italia con questi enormi animali, anche l’aver portato in guerra gli elefanti fu una strategia psicologica quella usata dal Cartaginese. Grande fu lo spavento che la vista di questi pachidermi procurò ai soldati romani; aleggiava ancora il ricordo di alcuni esemplari usati da Pirro re dell’Epiro, circa 60 anni prima, durante la guerra nella conquista romana dell’Italia meridionale, quando i tarentini chiamarono in aiuto questo re straniero,
Brizzi non si sofferma a lungo su questo noto episodio del valico delle Alpi ma passa subito all’ingresso dei Cartaginesi nella pianura del Po dove non trovarono l’esercito di Scipione ma solo la tribù dei Taurini che, vinti da Annibale, subirono la distruzione della loro capitale.
Annibale nel 218 a.C., affrontò l’esercito romano prima sulla riva del Ticino e poi alla Trebbia. Si trattò di due battaglie disastrose che costituirono una sconfitta anche politica perché i Galli defezionarono e passarono quasi tutti al Cartaginese (la Gallia Cisalpina era divenuta provincia romana nel 222 a.C.). Annibale scorrazzava da padrone per la pianura padana con il favore e l’appoggio delle popolazioni galliche. Il progetto di Annibale prevedeva una raffinata strategia politica: in primo luogo, sfruttare le divisioni fra i popoli italici soggiogati dai Romani allo scopo di spingerli alla ribellione. Annibale non era che un generale di trent’anni, ma impersonava la volontà imperialista della grande repubblica di Cartagine e il suo odio contro il primato civile di Roma che egli aveva giurato al padre Amilcare Barca sarebbe stato eterno.
A Roma il malcontento popolare per le due sconfitte si espresse nel 217 con l’elezione a consoli di Caio Flaminio e Gneo Servilio per sbarrare il passo ad Annibale che si avvicinava all’Italia centrale, ma ignoravano quale valico dell’Appennino avrebbe scelto per transitare con il suo esercito.
Flaminio, il più autorevole dei due consoli per i suoi precedenti militari, decise che l’esercito guidato da Servilio prendesse posizione a Rimini, e l’esercito guidato da lui stesso ponesse il campo nell’Etruria centrale per chiudere il passo al Cartaginese da qualsiasi valico si avvicinasse. Rimaneva però lo svantaggio di due eserciti lontani l’uno dall’altro. Annibale riuscì a attaccare i Romani di sorpresa e a sconfiggerli nel 217 in una battaglia al lago Trasimeno.
Non vorremmo però in questa sede soffermarci sullo svolgimento della battaglia, che da anni è studiata - anche da Brizzi - per esaminarne le tattiche, gli schieramenti, gli agguati, le strategie. Ciò che riteniamo doveroso ricordare è la gravità della sconfitta, una delle più dolorose subite da Roma tanto che il condottiero cartaginesi, osannato per il suo eroismo sul campo di battaglia e per la sua intelligente strategia, divenne oggetto di timore reverenziale.
Annibale per la vittoria finale mirava a uno scontro campale definitivo. Il 2 agosto del 216 il destino gli offrì l’occasione in Puglia, a Canne nella bassa valle dell’Ofanto. In quell’anno a Roma erano consoli Lucio Emilio Paolo, rappresentante della classe senatoria, e Caio Terenzio Varrone, di parte democratica, ben visto dai movimenti popolari. Annibale, spinto dalla necessità di rifornimenti per l’esercito, aveva occupato Canne, un borgo agricolo con depositi di frumento e cereali, posto su un’altura ma senza mura di difesa, perciò l’impresa non presentò difficoltà. I due consoli non erano d’accordo sul modo di procedere, Emilio Paolo non voleva fermarsi nella zona pianeggiante ma avanzare per posizionarsi sulle colline, Terenzio preferiva uno scontro immediato per non continuare la politica del temporeggiatore, Quinto Fabio Massimo, e fu preferito lo scontro immediato. Il disaccordo dei capi fu però deleterio, poiché al comando mancò unità d’intenti e ciò turbò anche l’animo degli ufficiali e dei soldati.
Considerato un modello di strategia bellica, quella battaglia è uno degli episodi più studiati dagli appassionati dell’arte militare, come ci ricorda Brizzi: Annibale vince contro i romani superiori di numero grazie alla forza della sua cavalleria e alla strategia che ha come obbiettivo quello di accerchiare il nemico, ma quello scontro tra romani e cartaginesi è anche ricordato tra i più grandi massacri della storia romana. Per rendersene conto è sufficiente leggere un passo dall’ “Ab urbe condita” di Livio che descrive la scena apparsa agli occhi dei vincitori dopo la battaglia.
Brizzi consiglia la lettura di quella descrizione di Livio e la ripropone immaginando una visita sul campo di battaglia la mattina dopo lo scontro; ne descrive tutto l’orrore in modo altamente drammatico con tanti particolari agghiaccianti e considerazioni sul triste destino di chi è costretto ad affrontare la violenza del nemico. Inoltre si deve considerare - sostiene Brizzi - che «quando la morte non sopraggiungeva immediatamente, restavano le ferite e le infezioni, il tetano, la cancrena. La cosiddetta bella morte di cui spesso si parla nelle guerre dell’antichità è solo il prodotto della retorica».
La sconfitta generò una paura che mise alla prova le istituzioni dello Stato. «Hannibal ad portas», fu il grido del popolo quando temeva di vedere il grande nemico alle porte di Roma.
Dopo la sconfitta di Canne nel 216, dove lo stesso console Emilio Paolo cadde insieme a numerosi ufficiali e a più di 40.000 soldati, le sorti di Roma sembravano segnate. Annibale perse soltanto 6.000 uomini: aveva ottenuto la più brillante vittoria della sua carriera di generale e si consacrava uno dei più grandi condottieri della storia, ma fortunatamente non approfittò della situazione favorevole e non si sentì pronto per attaccare Roma. Promosse disordini nell’Italia meridionale, convinse Capua e Siracusa a schierarsi dalla sua parte, ma i Romani espugnarono le due città e impedirono ad Asdrubale, fratello di Annibale, di portare rifornimenti e aiuti e lo sconfissero sul fiume Metauro nel 207, una clamorosa vittoria che fu la rivincita della sconfitta di Canne. I Cartaginesi furono costretti anche a ritirarsi dalla Spagna grazie al valore del giovane condottiero Publio Cornelio Scipione che eletto console riorganizzò l’esercito e si recò in Africa per allontanare il Cartaginese dall’Italia depredata e saccheggiata per sedici anni. I due grandi generali si trovarono di fronte, erano i due massimi comandanti non solo di quell’epoca ma anche di tutta la storia che li aveva preceduti: il romano Publio Cornelio Scipione e il nemico di sempre, il punico Annibale. Vanificata anche l’ultima speranza di concludere pacificamente e diplomaticamente la guerra (i Cartaginesi avevano infatti violato i patti già ratificati dal Senato di Roma), ai due generali avversari non restò che fare leva sull’emotività dei propri uomini, incitandoli all’eroismo e rammentando loro la portata universale dello scontro. A Zama avvenne una delle più famose battaglie dell’antichità conclusasi con la sconfitta delle forze puniche. Da allora Scipione ebbe il soprannome di “Africano”. Durissime le condizioni di pace imposte ai vinti. Annibale, costretto all’esilio vagò di corte in corte nell’inutile tentativo di trovare nuovi nemici contro Roma, sino a che nel 183, si suicidò per evitare la cattura.
Era la premessa della decadenza di Cartagine, poi distrutta nel 149 a. C. e l’affermarsi di Roma come signora di tutto il bacino occidentale del Mediterraneo.
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