di Vincenzo Vita.

Quando si torna sul problema della Rai non è agevole scegliere il registro comunicativo: la tragedia, la commedia, la farsa.

Simile incertezza calza anche rispetto all’ultima vicenda assurta a notiziabilità. Si tratta degli avvicendamenti in diverse direzioni, a cominciare dal ritorno al Tg3 di Mario Orfeo finora responsabile della delicata casella degli approfondimenti. Curiosa storia, visto che in quella testata (come nelle altre due, nonché alla direzione generale e alla presidenza di RaiWay: record aziendale) il citato prim’attore era già stato nel 2020. Naturalmente, secondo le ineffabili logiche della Rai, la ruota gira: l’attuale direttrice Simona Sala approderebbe al cosiddetto day time e agli approfondimenti salirebbe Antonio Di Bella.

Non c’è bisogno di essere dei fini analisti mediali per cogliere il sugo del racconto. Il servizio pubblico traballa appena il quadro politico a sua volta mostra qualche crepa. Una verità scomoda va pur detta: senza una riforma adeguata che superi l’odierno assetto centrato su un capo azienda dotato di poteri che non aveva neppure Sergio Marchionne, un universo così complesso non ce la fa. Non riesce a diventare una effettiva e autorevole articolazione dell’età delle piattaforme (la Rai è assente, ad esempio, dal dibattito sulle rete unica delle telecomunicazioni). E neppure è in grado di tener fede al principio sacrosanto del pluralismo, il fondamento stesso dell’identità sancita nella convenzione con lo stato e nel contratto di servizio. A proposito, siamo in piena par condicio per i referendum e il voto amministrativo, tant’è che i cambi in corsa nell’informazione sono rischiosi.

Insomma, la cinica organizzazione imposta dalla lottizzazione dei vecchi partiti di massa era sbagliata e moralmente discutibile. Tuttavia, è stato il paradigma su cui si è modellato l’apparato dell’ex monopolio. Ora, che a quello si è sostituito un meccanismo opaco, fondato su gruppi di potere, consorterie, salotti, spezzoni politici in quotidiana competizione, il quadro si è lacerato. E non c’è amministratore delegato che tenga. Infatti, il perverso congegno varato nel dicembre del 2015 con Matteo Renzi a palazzo Chigi declinava la componente di maggior peso dell’industria culturale italiana come un epigono del bonapartismo. Se, poi, l’unto dal governo non è all’altezza o sopravvaluta le sue forze o – semplicemente- è bravo sì ma in altri comparti, i guai arrivano con inesorabile velocità.

Ecco perché ci si sgola da anni sull’urgenza di un riassetto della Rai che la trasformi in una impresa dedita al bene dell’immaginario pubblico sotto l’egida di un’autonoma e indipendente fondazione. Solo così, forse, si può riscoprire il bello di esplorare i nuovi linguaggi dell’era digitale e di scommettere su un servizio pubblico generale, più che generalista.

Sta per entrare in vigore (il 6 giugno) la ristrutturazione che prevede lo slittamento delle funzioni dei canali verso cervelli trasversali e tematici. Ma, a maggior ragione, una simile ipotesi apparentemente coraggiosa rischia di impantanarsi nei meandri delle sacche di potere, nell’asfissiante ragnatela degli agenti e delle società esterne, nel vuoto di visione e di strategia.

Forse nel cambio di organigramma ha pesato l’incertezza della direzione degli approfondimenti nel dare messaggi di cambiamento, immaginando una rivisitazione della eterna strisciata dei talk: fratellini minori e spesso maldestri della commedia dell’arte.

Si approssima la scadenza della presentazione dei palinsesti autunnali e probabilmente la nebbia avvolge ancora l’edificio di viale Mazzini. Questo potrebbe stare alle origini delle scelte che Carlo Fuortes proporrà al consiglio di amministrazione previsto per il prossimo otto di giugno. Naturalmente, girano alquanto strani gossip sulla crisi di queste ore. E ciò contribuisce a introdurre elementi farseschi nella gravità della situazione, che va ben al di là di un Risiko sui nomi. Si vorrebbe persino attribuire la faccenda a scontri interni all’attuale maggioranza o a interventi di Fratelli d’Italia. Ma si tratta di supposizioni legate sempre a vecchi schemi interpretativi, che non hanno la lucidità di esclamare che il re è nudo: la Rai è in difficoltà serie e le fibrillazioni frequenti sono sintomi di una malattia profonda.

Solo nelle ultime settimane l’amministratore delegato si è scontrato con il sindacato dei giornalisti sulla terza edizione notturna dei telegiornali regionali ed è tornato sui suoi passi; e ha attaccato il programma Cartabianca condotto da Bianca Berlinguer, salvo poi prendere atto che esistono limiti invalicabili se non si vuole assumere atteggiamenti autoritari.

Per evitare un inutile stillicidio, varrebbe la pena di riprendere il filo della riforma. Meglio tardi che mai.

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