di Maria Pellegrini.

Quinto Sertorio, nato a Norcia (il comune gli ha dedicato una delle vie principali: Corso Sertorio) da una famiglia agiata intorno al 123 a.C., e rimasto presto orfano di padre, fu allevato dalla madre Rea per la quale nutrì sempre grande affetto e devozione anche quando le avventurose vicende della sua vita lo portarono lontano da lei. Si mostrò subito amico dei poveri e degli oppressi e nemico dei ricchi e arroganti. La sua vita, narrata da Plutarco (che attinse alle “Historiae” di Sallustio) fu avventurosa e ripercorrendone alcune tappe si ha l’immagine di un uomo generoso e inquieto, idealista ma al tempo stesso pragmatico, che non si limitò a sognare ma agì in prima persona pagando infine con la morte il tentativo di unire tutte le forze ostili al sistema oligarchico romano in nome di un progetto politico che prevedeva pace e giustizia in una società senza oppressi e senza oppressori.

In Italia Sertorio offrì le prime prove di coraggio durante le scorrerie dei Cimbri e dei Teutoni del 107 a.C.: nel corso d’una tragica ritirata romana, ferito e senza cavallo, attraversò il Rodano a nuoto con tutta l’armatura indosso. Passato a militare nell’esercito di Gaio Mario, sempre contro le stesse temibili popolazioni germaniche spintesi al sud, Sertorio passò alcuni mesi travestito da loro guerriero in territorio nemico (ne imparò persino la lingua) per spiarne le mosse. Sconfitti da Mario Cimbri e Teutoni, Sertorio fu inviato in Spagna, come tribuno militare nel 97 a. C. In terra iberica si mise in luce stroncando nel corso di una sola nottata una pericolosa rivolta antiromana. Nel corso della “guerra sociale” ebbe diversi comandi in qualità di “legato” e nel corso dei furiosi combattimenti con gli ex-alleati italici perse un occhio. Anziché dolersene, pare che egli fosse particolarmente fiero di quella menomazione, considerandola un segno del proprio indomito coraggio. Sia Plutarco che Sallustio notarono che grandi generali della storia quali Filippo e Annibale rimasero tutti privi di un occhio.

Terminata la “guerra sociale”, Roma precipitò nel baratro della guerra civile. Tra i due grandi contendenti, Mario e Silla, Sertorio rimase fedele a Mario, suo antico generale, e a suo merito va detto che egli fu unico dei pochi esponenti del partito popolare a non abbandonarsi alla violenza delle proscrizioni antisillane, anzi punì con estrema severità, fino a condannarli a morte, numerosi schiavi schierati con Mario che si erano macchiati di stupri e saccheggi. Le sue doti, la sua lealtà e generosità d’animo lo condussero a cariche sempre più importanti fino alla nomina di governatore della Spagna, e in breve tempo conquistò l’amicizia e la benevolenza delle popolazioni locali grazie ad una politica di fattiva collaborazione tra gli indigeni e l’elemento romano. Tuttavia questo sodalizio non durò a lungo: nell’81 Silla inviò in Spagna un esercito con l’ordine di eliminare Sertorio. Di fronte alla violenta offensiva sillana egli fu costretto a lasciare la Spagna e insieme a tremila fedeli s’imbarcò alla ricerca di un asilo. Si rifugiò in Mauritania. Dopo un anno, nell’80 a.C., approfittando di un’insurrezione dei lusitani contro l’oppressione di Silla, tornò in Spagna. Adottando i metodi della guerriglia inflisse numerose sconfitte alle legioni non avvezze ad affrontare una guerra basata su imboscate e colpi di mano. Così Sertorio fu in grado di organizzare la Spagna in nazione autonoma, con istituzioni simili a quelle di Roma, e un senato di trecento membri scelti senza distinzione di ceto. Il metodo di governo fu ispirato a giustizia e clemenza, e qualsiasi atto di violenza nei confronti della popolazione locale fu duramente punito: un esperimento senza precedenti nella spietata tradizione dell’imperialismo romano. Nella città di Osca (Spagna settentrionale), scelta a capitale, era stata creata persino una scuola per i figli della nobiltà ispanica nella quale si insegnavano anche le lingue latina e greca.

Sertorio fu ripagato dagli spagnoli con un attaccamento fanatico. La sua guardia era formata da centinaia di giovani del luogo che gli avevano giurato eterna fedeltà. Su di lui correvano leggende: si narrava ad esempio che una cerva bianca sempre al suo fianco gli trasmettesse i consigli degli dei. Fu probabilmente lo stesso Sertorio ad approfittare delle credenze superstiziose delle genti iberiche e a lasciar correre le voci intorno alla famosa cerva bianca, riportate anche da Plutarco nelle “Vite parallele” e Aulo Gellio nelle “Notti Attiche”.

Tutti questi successi misero Roma in allarme, anche per la errata decisione di Sertorio di cercare appoggio presso tutte le forze nemiche di Roma: si era infatti alleato con i pirati della Cilicia, che gli misero a sua disposizione un’intera flotta della quale egli si servì per difendere la costa orientale. Frattanto suoi agenti svolgevano un’intensa attività fra le tribù galliche incitandole alla rivolta. Entrò in contatto anche con Mitridate, il nemico radicale della potenza romana. A Roma si parlava già di lui come di un nuovo Annibale e si temeva una nuova invasione dell’Italia.

Fu dunque inviato un esercito con lo scopo di infrangere quel sogno di farsi beffe di chi voleva imitare Roma, ma evitandone l’ingiustizia e la violenza. Capeggiava quell’esercito Metello che, al contrario di ogni aspettativa, fu più volte sconfitto dalle milizie di quel “sognatore”. Dopo l’insuccesso di Metello fu mandato un nuovo esercito, questa volta agli ordini di Pompeo che tuttavia non riuscì a piegare l’intrepido Sertorio che aveva avuto la presunzione di fondare un altro impero anche se di modeste proporzioni, e di costituire un contro-senato. Toccò di nuovo a Metello, dopo gli insuccessi di Pompeo, il compito di spazzare via quella pericolosa illusione di uno Stato umano contrapposto a quello disumano che in quegli anni aveva Roma come epicentro. Sebbene Metello e Pompeo non riuscissero a debellare la rivolta, logorarono le truppe di Sertorio. E cominciarono a serpeggiare scontentezze tra le fila dell’esercito di quell’utopico comandante.

Tutte queste vicende inasprirono il carattere di Sertorio e lo indussero a iniziative e azioni di rappresaglia a volte molto dure e sicuramente inopportune. Per di più Pompeo mise una forte taglia sulla sua testa. Attirato in un banchetto dal traditore Perperna, Sertorio fu trucidato a tradimento (72 a. C.). Il suo sogno era stato infranto, la Spagna era di nuovo sottomessa all’autorità romana. Perperna volle trarre vantaggio dal tradimento e dall’assassinio e offrì a Pompeo il carteggio segreto di Sertorio. Ma Pompeo compì un gesto nobile e generoso: bruciò quelle carte senza leggerle, e fece giustiziare Perperna.

La figura di Quinto Sertorio è certamente una delle più controverse della storia romana: fu considerato per alcuni un superbo condottiero ed eroe, per altri subdolo avventuriero, uomo violento e avido (per Mommsen, ad esempio, «non vi è un altro uomo che possa venire paragonato a Sertorio per la poliedricità del suo talento»; mentre per lo storico Giulio Giannelli egli fu «l’esempio classico dell’uomo di parte, capace di erigere il trionfo del partito sulle rovine della patria». Ebbe sicuramente tutte le doti di un leader: scaltrezza, rapidità di esecuzione, coraggio, generosità d’animo, genialità. Gneo Pompeo Magno riuscì a eliminarlo col tradimento.

Chi volesse leggere la vita di Sertorio narrata da Plutarco, senza ricorrere alla sua voluminosa opera (“Vite parallele”) può trovarla pubblicata dall’editore Sellerio (1986) a cura di Pasquale Martino, con una nota di Luciano Canfora.

 

Nota: non esistono ritratti o busti di Sertorio, non conosciamo il suo volto.

Nell’immagine un arazzo del 1600 che ritrae Sertorio che ascolta la cerva bianca.

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