di Anselmo Pagani.

Nella splendida Roma del Seicento, a dispetto della minaccia di scomunica per quanti praticassero un simile scempio, non  mancavano le botteghe che, seppure con discrezione, esponevano questo avviso.
Dopo tutto, valeva la pena di correre qualche rischio perché quelle operazioni alla lunga risultavano molto redditizie, oltreché per chi le praticava, per genitori pronti a tutto pur di lanciare i propri pargoli nel mondo dello spettacolo dell’epoca che, vigendo la proibizione per le donne di calcare le scene teatrali, faceva ricorso agli “incomodati”, cioè ai castrati, per l’eccezionale qualità del loro canto caratterizzato da un timbro e  da un’estensione vocale del tutto particolari.
Costoro difficilmente deludevano le speranze, diventando ricchi e famosi perché i più importanti teatri di quei tempi se li disputavano a suon di quattrini quando mettevano in scena le richiestissime opere musicali, altresì dette “melodrammi”, termine derivante dai sostantivi greci “melos” (canto) e “drama”(recitazione).
L’involontario artefice di questi traffici fu il cremonese Claudio Monteverdi, nato il 9 maggio del 1567, che il melodramma lo inventò.
 Invero il teatro cantato aveva già esordito sul finire del Cinquecento con la “Daphne” di Jacopo Peri, ma consisteva allora in una sorta di “recitar cantando” non molto diverso dal “bel canto” con cui certi sacerdoti durante le Messe solenni ancora leggono il Vangelo.
Monteverdi comprese che una recita cantata, per non risultare monotona e così annoiare gli spettatori, doveva differenziarsi in arie, cori, duetti e balli, tutti con ritmi diversi a seconda dei personaggi e dell’andamento della storia.
Da buon promotore di se stesso, intuì anche che bisognava puntare sui sentimenti estremi, cioè le grandi gioie e i grandi dolori, alternandoli nel racconto.
Figlio di un cerusico, il “divino Claudio” si formò sotto la guida del direttore musicale della Cattedrale di Cremona, facendosi notare per la bella voce e le straordinarie doti d’esecutore.
A soli 15 anni compose le prime canzoni e madrigali, che lasciarono di stucco i suoi concittadini, salvo poi rendersi conto che la città natale gli andava stretta e trasferirsi pertanto a Mantova nel 1590 come Maestro di Cappella del Duca Vincenzo I Gonzaga.
Talentuoso, sicuro di sé, ambizioso il giusto, affabile e capace di farsi benvolere, il nostro aveva un solo difetto: la proverbiale tirchieria che lo accomunava proprio al Duca Vincenzo, il quale non solo gli passava un ben magro stipendio, ma spesso ne ritardava pure il versamento, mettendolo così in condizione a volte di non riuscire a mettere insieme il pranzo con la cena.
Forse anche per questo nel 1599 il nostro si sposò con Claudia Cattaneo, donna non solo di grande bellezza, ma anche benestante.
La ritrovata tranquillità economica, sommata alla conoscenza del poeta Alessandro Striggio, diventato suo librettista, consentì a Monteverdi in pochi anni di sfornare una serie di opere fra i quali uno dei suoi capolavori, “l’Orfeo”, messo in scena per la prima volta nel 1607, anno in cui rimase prematuramente vedovo con due figli a carico.
Tanta notorietà gli attirò anche critiche malevole, come quelle del bolognese Giovanni Maria Artusi che contro di lui scrisse alcuni pamphlet intitolati "Le imperfettioni della moderna musica", cui il Maestro rispose piccato che “nella moderna pratica l’armonia è serva dell’orazione, mentre prima ne era la padrona”.
Sull’onda di un crescente successo Monteverdi già l’anno successivo musicò a furor di popolo “l’Arianna”, opera tragica che riuscì a commuovere gli spettatori fino alle lacrime.
Solo l’insipienza degli indegni figli del duca Vincenzo I, succeduti al padre e causa della rapida decadenza del loro Stato, indusse il “divino Claudio” a trasferirsi a Venezia, dove fu accolto trionfalmente per assumervi la carica di Maestro di Cappella della Basilica marciana.
Qui, a dispetto del terrore patologico di finire sul lastrico che continuava a tormentarlo, compose non solo splendidi brani di musica sacra come il celestiale “Vespro della Beata Vergine”, ma anche melodrammi come la  “Proserpina rapita”, “il Ritorno di Ulisse in patria” e “la Coronazione di Poppea”, prima opera di carattere storico con personaggi realmente esistiti, non mitologici.
Quando spirò il 29 novembre del 1643 i Veneziani riconoscenti tributarono a “Don Claudio” onori mai visti prima d’allora. I suoi funerali furono celebrati in maniera solenne, a spese dello Stato, e le spoglie mortali seppellite nella Chiesa di Santa Maria Gloriosa dei Frari, in una tomba sulla quale mani riconoscenti depositano da allora tutti i giorni una bella rosa rossa fresca, il fiore preferito dal Maestro.  

Immagine: “Presunto Ritratto di Claudio Monteverdi”, di Domenico Fetti, 1620 circa, Galleria dell’Accademia, Venezia.

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