La questione salariale è il cuore dello sciopero generale.
 
L'associazione politico-culturale UmbriaLeft sostiene lo sciopero generale proclamato per venerdì 29 novembre dalla CGIL e dalla UIL. Lo sciopero propone finalmente come centrale la “questione salariale”.
La stagnazione dei salari affligge l'Italia dall'inizio degli anni ‘90, dall'accordo capestro per i lavoratori del 31 luglio 1992, quando le organizzazioni sindacali sottoscrissero l'abolizione della “scala mobile”, la rinuncia alla contrattazione e l'impegno alla moderazione salariale a oltranza, con riferimento alla famigerata “inflazione programmata”. Quindi, una sconfitta dei salariati e dei pensionati che viene da lontano, sicuramente dal febbraio 1978, dal convegno dell'EUR, quando il leader della CGIL, Luciano Lama, definì il salario una “variabile subordinata” al profitto d'impresa.
Una politica sindacale che ha contribuito al declino economico del nostro Paese e allo spostamento della ricchezza verso la rendita e il profitto, a scapito dei salari e delle pensioni, invece che all'abbassamento delle tariffe dei servizi pubblici, la lotta all'evasione fiscale, la promozione dell'occupazione e degli investimenti pubblici.
I dati che ci fornisce l'Ocse sono impietosi: tra il 1990 e il 2020, l'Italia è l'unica economia con una contrazione del salario medio anno (-2,9%), mentre in tutte le altre aumenta, dalla Spagna (+6,2%), alla Francia (+31,1%), alla Germania (+34%). Un trend discendente che è continuato anche dopo la pandemia. Il potere d'acquisto dei salari e degli stipendi in Italia è calato del 3,3% nel 2022 e di un ulteriore 4% nel 2023, con un’inflazione del 17% nello stesso periodo.

In Umbria perdura uno svantaggio retributivo del lavoro dipendente nel settore privato, che nel complesso risulta inferiore dell'11,5% rispetto a quello medio nazionale. Le retribuzioni dei dipendenti privati, con contratti a tempo pieno e a tempo indeterminato, nella nostra regione sono pesantemente penalizzate: un apprendista, -5,8%; un dirigente, -16,1%; un quadro -12,3%; un impiegato -8,9%; un operaio -6,7%, rispetto a quelle nazionali. Dati che ci parlano di un’emergenza sociale ed economica cui va aggiunta la nota penalizzazione delle donne, anche a parità di lavoro.
I salari stagnanti sono la diseguaglianza sociale che cresce in maniera esponenziale e la crescita della precarietà del lavoro e della vita. Ma significa anche che la struttura produttiva scivola verso settori a basso valore aggiunto (turismo, ristorazione, servizi alla persona), bassa capacità d’innovazione del processo produttivo e del prodotto e uno sviluppo industriale basato sul contenimento dei costi e sull'intensità dello sfruttamento del lavoro.

I salari e gli stipendi stagnanti significano la debolezza della domanda aggregata e, quindi, effetti negativi sulla produzione complessiva.
La crisi salariale, sintomo e causa della crisi industriale ed economica, avviene nel ciclo del trionfo del capitale sul lavoro, con la svolta liberista in politica economica (finanziarizzazione, decentramento produttivo, privatizzazioni, arretramento dello Stato, flessibilizzazione del mercato del lavoro, riduzione dei diritti e indebolimento dei sindacati). Siamo approdati a un modello di “terziarizzazione povera”, che ha significato massicci tagli alla spesa pubblica in ambiti particolarmente sensibili per la crescita e lo sviluppo (infrastrutture, istruzione, ricerca e innovazione) e lo sviluppo insensato di forme precarie di lavoro, molte volte temporaneo e a part-time involontario.
Proporre la questione salariale al centro della contesa sociale è una scelta giusta, e lo sciopero generale contro la manovra del Governo Meloni, che la ignora, è sacrosanto. È necessaria una vertenza prolungata, anche con più scioperi generali, affinché i 16,5 milioni di lavoratrici e di lavoratori si riprendano la ricchezza che gli è stata scippata dal profitto e dalla rendita.

Stefano Vinti
Associazione UmbriaLeft

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