di Leonardo Caponi

PERUGIA -  “Signor mozzo io non vedo niente, c’è solo un po’ di nebbia che annuncia il sole; andiamo pure avanti tranquillamente…”: con la sicumera derivante dal sentimento di onnipotente invulnerabilità della tecnologia moderna, il comandante di una nave immaginaria, nei versi della bella e nota canzone “I muscoli del capitano” di Francesco De Gregori (album Titanic di tanti anni fa), risponde al suo subalterno che gli segnala all’orizzonte la presenza di “una dama bianca, così enorme e bella che di guardarla uno non si stanca”. Per la verità, la presunzione del comandante, attraverso la figura fantastica di quest’ultimo, De Gregori la attribuisce ad una intera epoca, quella degli inizi del ‘900, o forse a tutte le altre, come quella contemporanea, nelle quali i successi della ricerca scientifica e la grandezza delle sue creazioni spingono l’uomo a ritenersi più forte della natura che lo circonda e quindi a non rispettarla. Forse è stata anche questa presunzione di invulnerabilità che, quella notte maledetta di tre mesi fa, ha spinto il comandante della Costa Concordia a portare il gigante di acciaio che gli era affidato a passare a pochi metri dalla terraferma e ad infrangersi sugli scogli del Giglio.

In questi giorni in cui ricorre il centesimo anniversario dell’affondamento del Titanic (notte tra il 14 e il 15 aprile 1912) si sprecano sui media gli accostamenti e i confronti tra le due tragedie. Le analogie, per la verità, non sono molte a cominciare, per fortuna, da quello del numero dei morti; ma si sa lo spettacolo e quindi l’audience, la pubblicità e gli “incassi” hanno le loro esigenze e, una volta esauriti i racconti ”separati”, si passa a lavorare alla scoperta di analogie ed elementi comuni, più o meno reali, che accrescano i motivi di interesse, curiosità e, in definitiva, il fascino dei due grandi drammi e di conseguenza il gradimento del pubblico.

La settimana scorsa gli affondamenti delle due navi hanno avuto l’onore della ribalta in una delle trasmissioni di Porta a Porta. Si è posto l’accento su molte similitudini ma, curiosamente (o forse no), se ne è trascurata o oscurata una delle più importanti. Quale?

Leggere gli atti del processo che segui la tragedia del Titanic può essere illuminante per comprendere le vere ragioni o la vera ragione del disastro. Fu un processo celebrato in America e, come sovente accade in quel Paese, nulla della verità fu sottaciuto o nascosto, salvo poi una straordinaria capacità del sistema, di quel sistema, di tramandare alla storia, in via esclusiva o prevalente, solo gli elementi graditi di quella verità, escludendo o marginalizzando quelli sgraditi.

La “croce” all’epoca fu gettata non tanto sulla figura del Capitano Smith, uomo ormai vecchio e stanco, al suo ultimo comando che, si racconta, visse le ore del naufragio raccolto in una sorta di cupo stordimento prima di scegliere di inabissarsi con la sua nave, quanto invece sul comandante in seconda, il più giovane Murdoch. A lui venne rimproverato l’errore di avere dato, dopo l’avvistamento dell’iceberg fatale, il famoso ordine: ”Macchine indietro tutta, tutta barra a sinistra”; questa manovra avrebbe portato la fiancata destra del Titanic a “strisciare” la montagna di ghiaccio procurando uno squarcio di 90 metri, tale da rendere inutili tutti i sistemi di sicurezza della nave ed in particolare quello delle celebri “porte stagne” tra diversi compartimenti che avrebbero dovuto rendere “inaffondabile” il colosso di acciaio. Se Murdoch avesse solo rallentato la velocità mantenendo la rotta e quindi “urtando” l’iceberg “di punta”, il Titanic, con tutta probabilità, non sarebbe affondato.

Errore umano, dunque? Si, forse, anche. Ma nessuno ha sottolineato col medesimo rilievo altri elementi: non solo quello più banale, ma davvero incredibile, che le vedette erano prive di binocoli (“dimenticati” (!?), si dice, alla partenza) ma anche l’insufficienza delle scialuppe che, nel racconto della tragedia divenuto tradizionale, viene attribuito alla carenza di legislazione in materia, quasi come se questa non riflettesse esigenze che oggi potremmo definire di “riduzione dei costi” o, peggio ancora, un disprezzo razzista delle vite dei membri dell’equipaggio (parte dei quali lavoravano in condizioni disumane) e dei passeggeri di terza classe. Non fu certo un caso, infatti, che la grande maggioranza dei 1.500 morti fu proprio composta da questi ultimi, anonimi disperati viaggiatori, oscurati, nel mito della tragedia, dalla romantica retorica di quelli ricchi .
Ma la cosa di maggior rilievo fu la velocità della nave che le impedì, nelle poche centinaia di metri che aveva a disposizione, di fermarsi in tempo. Il Titanic viaggiava praticamente alla velocità massima ad esso consentita di 22 nodi/ora: un atto di vera incoscienza poiché molto numerosi, nei giorni e nelle ore precedenti la tragedia, erano stati gli avvisi di altre navi circa la presenza di ghiaccio sulla rotta. In realtà anche gli atti dell’inchiesta mettono in dubbio che a comandare il vascello fosse il vecchio capitano Smith; a dare l’ordine di avviare anche l’ultimo dei forni in sala macchine per aumentare la potenza alle eliche sarebbe stato Ismay, l’amministratore delegato della società armatrice del Titanic, la White Star Lines. Costui intendeva mettere a segno un gran colpo pubblicitario: arrivare a New York con un giorno di anticipo sul previsto, stabilendo il record di velocità sulla traversata dell’Atlantico che sarebbe stato sancito dalla consegna del premio Nastro Azzurro. Questo avrebbe consentito alla White di volgere a suo favore la competizione in atto da tempo con la società rivale, la Cunard Lines e di assumere così il “dominio” sulle rotte atlantiche.

Dove sta, dunque, l’analogia con la vicenda della Costa Concordia? Nel “movente”, si potrebbe dire, dei due fatti: la ricerca affannosa del business e la competizione eretta a sistema. Sarà certo vero che il comandante Schettino ha commesso una colossale fesseria e si è comportato come un guappo napoletano, piuttosto che come un saggio capitano; ma la cosa altrettanto certa che emergerà dall’inchiesta, se sarà onesta e completa, è che la compagnia armatrice non solo consentiva e tollerava, ma addirittura incoraggiava gli “inchini”, o come ha detto lo stesso Schettino, li “pianificava”, ritenendoli fondamentale veicolo pubblicitario per attrarre passeggeri e, conseguentemente, come recita il rosario dei dogmi indiscutibili dei nostri tempi, “aumentare i volumi”, ”incrementare i profitti”, realizzare insomma quelle condizioni che connotano, come prescrive l’ineludibile Comandamento della modernità, “l’efficienza e la competitività di una azienda”.
Se poi tutto questo, un secolo fa come oggi, comporta il prezzo di immani catastrofi è, alla fine, da ritenersi una pura fatalità o effetto di un errore umano. Ma noi, vecchi e tenaci critici di un capitalismo senza limiti, continueremo a non ritenerle semplicemente tali.
 

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