di Giampaolo Ceci

PERUGIA - Si sta ingenerando un fenomeno pericoloso verso i politici e la politica.
Sulla scia di scandali veri o presunti si sta consolidando un’immagine del politico arraffone e superficiale che si intessa più ai suoi affari o la più a quelli del suo partito, piuttosto che una persona che cerca di dare un suo contributo di idee ai problemi della sua gente o del suo territorio.

Non dico che non sia vero che esistano persone di questo livello, ma bisogna stare attenti a non generalizzare. Non è giusto e non risponde neppure al vero.
Che fare dunque per distinguere la crusca dal grano? Secondo me sarebbe facile se lo si volesse.
Il problema dei costi della politica e dei politici non è solo in un verso. Non solo chi guadagna poco potrebbe fare politica per guadagnare di più ma vi è anche un problema diametralmente opposto di cui nessuno parla. Ovvero di chi non fa politica perché guadagna molto e facendola ci rimetterebbe: il risultato è che le persone più capaci sono disincentivate ad entrare in politica.

D’altro canto bisogna ammettere che chi svolge attività politica è uno specialista. Non solo deve essere una persona di ampia cultura, intelligente, lungimirante, ma anche conoscere bene il contesto socio economico del territorio.
Non basta. Il politico deve anche essere aggiornato, leggere con continuità i giornali, le leggi, partecipare alle attività della collettività che rappresenta, sentire le istanze dei suoi concittadini e anticiparne gli umori.
Come se non bastasse, deve anche conoscere una miriade di leggi e leggine che riguardano il funzionamento della “macchina pubblica” che ne condizionano ogni atto amministrativo.
In pratica un “politico” che voglia candidarsi a svolgere funzioni di amministratore pubblico deve saper coniugare i migliori risultati in funzione alle risorse disponibili e quindi intendersi anche di economia e bilanci.
Quando si ha la fortuna di trovare politici capaci e intellettualmente onesti non bisogna lasciarseli sfuggire a qualunque partito politico facciano riferimento.

Non importa quanto costano, il prezzo è una variabile secondaria rispetto ai danni che potrebbero derivare alla collettività da decisioni strategiche sbagliate o dalla mancata gestione oculata della cosa pubblica.
E in questo contesto che si inserisce la polemica delle retribuzioni dei nostri rappresentanti nelle varie istituzioni.
Non mi scandalizzano le retribuzioni dei politici. Il problema non è qui. Anzi personalmente sarei disposto a pagare anche di più per consentire a qualche dirigente capace di organizzare meglio la città, i suoi servizi se non addirittura azzeccare politiche di sviluppo che possano consentire ai miei figli di trovare migliori opportunità lavorative o anche solamente condizioni di vita sicure e civili.

Nella nostra società ogni imprenditore sa bene che non è sui buoni manager che deve fare economia perché dalla loro intelligenza e capacità introspettive o organizzative che dipende il futuro di ogni impresa.
Il problema sulle retribuzioni delle cariche politiche sorge solo qualora vi fossero scarsi risultati di fronte alle spese. Ovvero se si pagasse molto un politico incapace di ottenere buoni risultati.
Il problema come ho detto, è duplice perché riguarda sia gli uomini mediocri che con la politica aspirano a guadagnare quanto non avrebbero mai potuto nella loro attività lavorativa, ma anche gli uomini di qualità che invece non scendono in politica perché guadagnerebbero troppo poco o si farebbero inimicizie pericolose.
Quale è il metro migliore quindi per valutare il “prezzo” del politico se non quello di verificare il successo ottenuto da questi nella sua usuale attività lavorativa da privato cittadino?

D’altro canto in alcuni casi eclatanti sorge spontanea la domanda: come mai politici di così alta preparazione e cultura poi nella loro attività lavorativa privata fanno mestieri che non la sfruttano adeguatamente e perché, mai a questi fini e colti intellettuali non vengono riconosciute le loro capacità nelle strutture nelle quali lavorano svolgendo funzioni in subordine di altri? Si tratta di palesi ingiustizie o sono effettivamente meno bravi dei loro capi? Come è possibile che un impiegato di concetto, per il fatto che faccia politica possa essere chiamato a dirigere una municipalizzata con bilanci milionari, mentre nella sua usuale attività lavorativa è invece solo un impiegato, magari nella stessa municipalizzata che presiede?

Per togliere ogni dubbio che la attività politica non nasconda il desiderio di guadagnare oltre i propri meriti, sfruttando la propria popolarità piuttosto che le proprie competenze, sarebbe utile garantire a chi occupa cariche pubbliche, una integrazione al reddito della sua usuale attività lavorativa che, ad esempio, gli consenta di mantenere la maggiore delle retribuzioni percepite negli ultimi tre anni, magari con un limite inferiore se il reddito non è congruente con la dignità della carica pubblica che ricopre.
In questo modo la attività politica non sarebbe quella di “fare politica” ma solo di “prestarsi alla politica” avendo la garanzia di non perderci e di mantenere il medesimo tenore di vita della vita non pubblica.
Al dipendente comunale la integrazione al suo reddito medio degli ultimi tre anni, lo stesso al commerciate e lo stesso anche al mega dirigente di azienda che si presta la sua intelligenza alla politica.
I politici di professione, potranno fare politica attiva, ma con gli stessi stipendi che percepivano da “privati” cittadini. Ai disoccupati che vogliano fare politica solo un minimo di rappresentanza in funzione della loro posizione.

Del resto se la città chiama un suo cittadino ad un impegno che lo distoglie dalla sua attività lavorativa è giusto che lo rimborsi per il mancato reddito del suo usuale lavoro, magari con un bonus per il disturbo ma perché dargli di più?
 

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