di Fausto Gentili.

Rispondo con un certo imbarazzo, e dopo molte incertezze, alla sollecitazione dei compagni di Umbrialeft.

Lo faccio per senso del dovere (se ti chiedono un'opinione non puoi cavartela dicendo “ho idee confuse”) ma la verità è che davvero non credo che le mie idee sull'Ottobre possano aiutare qualcuno a vedere più chiaro nelle sue, e in questi casi -quando non si ha qualcosa di convincente da dire- è opportuno tacere. D'altra parte non credo nemmeno che si possa trattare la rivoluzione sovietica come uno scheletro ingombrante da tenere nell'armadio, anche perché un armadio così grande non è ancora stato costruito, e allora “a domanda rispondo”.

Partirei dunque dalla domanda che in genere si pone alla fine: sarebbe stato meglio, a conti fatti, che

l'Ottobre non ci fosse stato, e che l'esperimento liberaldemocratico avviato da Kerenskij avesse proseguito il suo cammino? La mia risposta è no.

Innanzitutto, la domanda sottintende una possibilità che non c'era: la Russia del 1917 era in una condizione di sostanziale ingovernabilità (esercito in via di disgregazione, città alla fame, duplicità di poteri, ecc.) e l'Ottobre fu, paradossalmente e nonostante la guerra civile, un fattore di relativa stabilizzazione. Non si trattava dunque di scegliere tra la rivoluzione e un ordinato sviluppo in senso liberaldemocratico, ma tra la rivoluzione e la catastrofe politica, economica e sociale.

Ma poi, e questa è la ragione principale del mio “no”, perché l'Ottobre, l'esistenza stessa di un regime politico che, in un grande Paese, dichiarava di governare in nome del proletariato e di voler promuovere la transizione socialista, ha radicalmente cambiato il quadro di riferimento del mondo e trasformato una vaga aspirazione (il “sol dell'avvenire”) in un esperimento politico, economico e sociale: qualcosa che avveniva nel mondo reale e che poteva essere osservato, aiutato o avversato, criticato, imitato o riprodotto in varianti più o meno originali. Senza quella rottura non si spiegherebbe la scelta di vita di milioni e milioni di persone che, nel cuore dell'Occidente capitalistico o nelle lontane periferie degli imperi coloniali, hanno percepito come possibile (anzi, addirittura in corso) un progetto di liberazione integrale dell'umanità ed a questo progetto hanno dedicato tempo, passione e intelligenza, cioè le loro vite, col risultato di migliorare le vite di

tanti altri, noi compresi. Il fatto poi che quel progetto si fosse tradotto in un'entità statuale, l'Unione delle repubbliche socialiste sovietiche, destinata a durare nel tempo svolgendo un ruolo decisivo nella guerra antifascista ed esercitando un suo peso fondamentale nei successivi equilibri geopolici del mondo, ha creato condizioni inedite, margini di iniziativa inimmaginabili fino a poco prima: sia per i processi di liberazione dei popoli ex-coloniali che per la realizzazione, nell'Occidente capitalistico, di quel compromesso tra capitale e lavoro che è il tratto fondamentale del trentennio “glorioso” 1945-1975 e il terreno principale di iniziativa del movimento sindacale, della socialdemocrazia europea e del Partito comunista italiano. Quanto questo fosse vero lo si può peraltro misurare nell'ultimo trentennio: uscita dall'orizzonte la minaccia comunista, il capitalismo reale ha potuto “tornare alle origini” o per lo meno all'Ottocento e dispiegare liberamente il suo

potenziale distruttivo e la sua intima natura antiumanistica, costringendo tutti noi alla fatica di Sisifo.

Proprio questo, però, il fatto di dover “ricominciare da capo” evitando, se possibile, di ripetere gli stessi errori, ci impone di non sfuggire ad una seconda domanda: le ragioni della sconfitta di quell'esperienza sono tutte da ricercare in fattori esterni (la circostanza storica di una rivoluzione che rompe in un Paese arretrato “l'anello debole della catena imperialistica”, l' accerchiamento, l'irrigidimento burocratico, l'inadeguatezza dei capi, la potenza dell'avversario, ecc.) o genericamente antropologici (il “legno storto dell'umanità” che non accetta di farsi raddrizzare), oppure la vicenda storica ha portato in piena luce un limite interno al progetto stesso? In altri termini, e per capirci meglio: stiamo parlando solo di una sconfitta oppure di un fallimento? E se, come credo, di fallimento e non di semplice sconfitta si tratta: è il fallimento di che cosa?

Quali principi, quali ideali, quali modalità di azione ne risultano compromessi, e che cosa invece sopravvive al naufragio? Qui il discorso si fa difficile e richiederebbe uno spazio che non ho e uno sforzo teorico che non credo di saper fare. In estrema sintesi, e scusandomi per l'eccesso di semplificazione, nomino le cose a cui credo non si debba rinunciare e quelle che invece rischiano di appesantire o fuorviare il nostro difficile cammino.

Innanzitutto, non credo che la “chiave” del fallimento sia nel tratto prometeico del comunismo, la sua discendenza dall'idea illuministica che la vita umana sia non solo destino ma anche progetto, costruzione, disegno intenzionale, “fuoriuscita dalla presitoria”. La storia e la filosofia del Novecento ci hanno insegnato a riconoscere il limite (antropocentrico e razionalistico) di questo approccio, ma non fino al punto di negarne il valore: il rapporto tra sapere e libertà, l'universalismo dei principi e dei diritti, l'ideale dell'uguaglianza, l'uso pubblico della ragione restano a mio avviso i riferimenti irrinunciabili dell'agire politico della sinistra.

Nemmeno credo che si possa “superare” la lezione materialistica di Marx: se è il lavoro a definire l'esistenza specifica dell'uomo (la sua diversità dagli altri animali, la sua potenza creatrice) e al tempo stesso, però, è nel lavoro che si annida la forma moderna della dipendenza dell'uomo dall'uomo, la chiave della liberazione umana sta lì, nel superamento dei rapporti capitalistici di produzione. In cento altri processi di liberazione, certo (penso innanzitutto alla ricchezza sociale e al potenziale di pubblica felicità impliciti nell'inarrestabile processo di liberazione delle donne): ma innanzitutto lì, nel non dover dipendere, per lavorare, dalla tua capacità di arricchire qualcun altro. Questo approccio, che è “vecchio” ormai di quasi due secoli, a me sembra confermato dalla vera novità del presente: il fatto cioè che per la prima volta nella storia un altro mondo è oggi tecnicamente possibile. Un mondo liberato dalla fame e dalla maggior parte delle malattie, dalla necessità del lavoro comandato, dall'ignoranza come destino irredimibile di larghe masse e di popoli

interi. Per la prima volta nella storia, su scala ben più ampia e ad un ritmo ben più rapido di quanto

embrionalmente accadde con la rivoluzione industriale, si vengono delineando le precondizioni tecnologiche di una vera età dell'oro dell'umanità; e grida vendetta la contraddizione tra la potenza liberatoria di questa innovazione e il suo concreto, effettivo, storico realizzarsi entro la gabbia dei rapporti capitalistici di produzione che ne condizionano le premesse e ne imprigionano le potenzialità sotto il comando di pochissimi e a loro beneficio. Questa contraddizione è talmente lampante, talmente ampio lo scarto tra ciò che sarebbe tecnicamente possibile e ciò che è praticabile nei rapporti sociali dati, che l'ideologia dominante ha dovuto, per occultare il senso delle cose, cambiare radicalmente di segno. Nel giro di un decennio si è passati dall'esaltazione delle magnifiche sorti e progressive della società affluente in cui "ognuno è imprenditore di se stesso" alla lugubre predica penitenziale dei tanti ex trombettieri del neocapitalismo, oggi impegnati a spiegare ai poveri che, al contrario, almeno per loro la ricreazione è finita: il diritto ad una vita

decente era un sogno velleitario e quanto, anche in Italia, era stato posto a fondamento della repubblica (un lavoro, un salario dignitoso, la sanità pubblica, l'istruzione dei figli, una vecchiaia relativamente sicura, una moderata riduzione delle disuguaglianze) era invece una vacanza, uno spensierato vivere al disopra dei propri mezzi. Dura lex sed lex, è il capitalismo, baby, e non puoi farci niente.

Questa contraddizione, questo scarto abissale tra ciò che potrebbe essere e ciò che effettivamente è

costituisce la ragion d'essere di un progetto di trasformazione sociale e illumina, per così dire, la

ragionevolezza dell'alternativa. Ma ciò non significa in nessun modo che il cambiamento sia nelle cose: gli si oppongono abitudini consolidate, tradizioni, il senso comune prodotto da una paralizzante egemonia culturale, e sopratutto una spaventosa concentrazione di potere: un potere pervasivo, senza volto, con poche teste e mille braccia, che muove dall'alto (la finanza, le multinazionali, l'apparato militare) ma discende per li rami e investe la politica, gli Stati, il sistema della comunicazione, la cultura, gli stili di vita. Come ci si oppone a questo potere? Come si rovescia questo stato di cose? Per rispondere a questa domanda non credo che ci torni utile, se non in negativo, l'esempio dell'Ottobre.

In particolare, e semplificando molto, credo si debba dire senza tanti giri di parole che la rivoluzione non è una scorciatoia. Il duro, faticoso lavoro di costruzione di un soggetto storico della liberazione umana non può essere surrogato dalla forzatura iperpolitica di un'autoproclamata avanguardia consapevole che agisca a nome di altri e nel loro interesse, che si presume “oggettivo”. E tanto meno può essere realizzato “dall'alto”, a partire dalla forza di coercizione messa a disposizione dalla conquista del potere politico. Con ciò non intendo sottovalutare il decisivo tema del potere (niente dirittti se non hai il modo di sancirli con la forza della legge e il potere di farli valere) né tantomeno il ruolo delle minoranze nella storia del progresso umano.

Al contrario: quello che voglio dire è che quanto più le minoranze sono convinte di interpretare un interesse più vasto e un punto di vista più comprensivo, tanto più debbono misurarsi con il “qui ed ora” rappresentato dagli altri, cioè dalla democrazia, cioè dal popolo, che il più delle volte è diverso da come vorremmo che fosse. Con la battaglia delle idee e la pratica delle lotte per l'emancipazione. Con la fatica quotidiana della relazione politica e sociale, vale a dire con l'obiettivo di diventare maggioranza.

Per opporre al potere del denaro un progetto che abbia, almeno in prospettiva, una ragionevole probabilità di successo, non abbiamo dunque bisogno di conquistare una postazione più elevata, un potere statuale che per il solo fatto di essere nelle nostre mani invece che in mani altrui- ne risulterebbe purificato. Ci servono piuttosto due strumenti molto più umili: la lente di ingrandimento, per riconoscere nel confuso agitarsi del processi storici le tendenze positive ed i soggetti che possono o potrebbero dar vita ad un campo di forze della trasformazione; e un kit con ago e filo, per provare a cucire insieme le pratiche, i soggetti, i popoli che possono riconoscersi in un progetto alternativo di società. Ricognizione e tessitura, è questo -credo- il lavoro che ci aspetta nei prossimi anni.

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