di Maria Pellegrini.

Il 7 novembre 2017 ricorrono cent’anni dalla rivoluzione bolscevica, chiamata comunemente “Rivoluzione d’Ottobre” perché fino al 1918 in Russia si seguiva il calendario giuliano, sfalsato di due settimane rispetto a quello gregoriano, usato in Europa dal 1582. La data ricorda il momento in cui i bolscevichi presero il potere. L’episodio simbolo fu l’assalto al Palazzo d’inverno dove i ministri del governo provvisorio, entrato in carica dopo la fine del regime zarista, si erano barricati, ma la loro resistenza venne sopraffatta in poche ore.

Questo grande evento rivoluzionario è in questi giorni ricordato da storici, giornalisti, intellettuali di varie e differenti formazioni culturali, ma al di là delle opinioni e delle personali posizioni politiche, è uno di quei fatti grandiosi che suscitò attese, speranze di un nuovo corso della storia dell’umanità. Di quei “Dieci giorni che sconvolsero il mondo” - come recita il titolo di un libro di John Reed, che rievoca quella rivoluzione animata da entusiasmo e speranze - si può discutere sotto molti punti di vista, con analisi politiche o con riflessioni riguardanti i molteplici aspetti che una così importante data suggerisce. Degna del nostro ricordo deve senza dubbio essere anche la sorprendente emancipazione della donna e della famiglia che il neonato stato sovietico si accinse a realizzare immediatamente dopo la rivoluzione. L’attuazione del piano, un compito ambizioso, prevedeva di sostituire la forma di famiglia patriarcale feudale, abolire la discriminazione sessuale sul posto di lavoro e in famiglia, dare alle donne maggiori opportunità professionali e d’istruzione per aprire ad esse spazi riservati prima solo agli uomini, concedere agevolazioni per conciliare meglio l’attività lavorativa con quella domestica e familiare.

La Russia prima del 1917 era una società prevalentemente contadina; l’autorità totale dello Zar era consolidata dalla Chiesa e si rifletteva nell’istituzione della famiglia. Il matrimonio e il divorzio erano sotto controllo religioso, le donne erano legalmente subordinate al marito. Dunque la legislazione riguardante la donna e la famiglia attuata dopo la rivoluzione del 1917 fu molto avanzata rispetto ad altri paesi europei: il matrimonio fu sostituito dalla registrazione civile e il divorzio divenne accessibile su richiesta di entrambi i partner. Fu elaborato un Codice della Famiglia che rese le donne uguali agli uomini davanti alla legge e concesse loro il diritto a possedere denaro proprio e allo stesso tempo si approvò una legge per sancire che nessuno dei due partner avesse diritti sui beni dell’altro.

Nel gennaio del 1918 nacque ufficialmente il “Dipartimento per la protezione della maternità e dell’infanzia”, che prevedeva molte positive disposizioni a favore delle partorienti alla quali era assicurata ogni assistenza. La legislazione prevedeva l’aspettativa di 16 settimane prima e dopo il parto, l’esenzione da lavori troppo pesanti, il divieto di trasferimento e licenziamento per le madri in attesa, la proibizione del lavoro notturno per donne in gravidanza e puerpere, l’istituzione di appropriate cliniche della maternità e asili per l’infanzia.

Nel 1926 si legalizzò l’aborto e si istituirono consultori pubblici affinché fosse garantita ogni assistenza a chi facesse questa scelta. Si arrivò a tali risultati soprattutto grazie all’interesse e a all’azione di donne coraggiose che presero parte alla Rivoluzione e si batterono per l’emancipazione femminile e per promuovere la parità tra uomini e donne. Anche Lenin parlò spesso dell’importanza di alleviare alle donne il lavoro domestico in modo da poter partecipare più pienamente alla società. Molte tra le prime operaie russe parteciparono attivamente alla Rivoluzione, e il coinvolgimento delle operaie nella gestione diretta della produzione e dei servizi, tramite i soviet, aprì la porta alla effettiva importanza femminile nel mondo del lavoro.

Dopo il 1917 si organizzarono congressi e conferenze di donne in tutta la Russia, permettendo di avvicinare anche le contadine alla lotta delle lavoratrici. Al secondo congresso della Terza Internazionale, nel 1920, vennero approvate le direttive per il “Movimento comunista femminile”.

Successivamente, con la presa del potere di Stalin, molta di quella legislazione d’avanguardia che agevolò l’emancipazione femminile fu ridimensionata, ma le donne continuarono a lottare per riaffermare i diritti conquistati.

Una delle maggiori teoriche del femminismo fu Alessandra Kollontaj. Nata nel 1872 da madre finlandese e da padre russo, sposata giovanissima e presto divorziata (portò tuttavia sempre il cognome Kollontaj del primo marito), viaggiò molto in Europa nei primi anni del secolo stabilendo contatti con numerosi esponenti rivoluzionari, tra i quali Rosa Luxemburg. Scrisse numerosi saggi, articoli, libri in cui trattò i problemi della donna, della maternità, della sessualità. La sua tesi era che questioni considerate private come l’amore, il sesso e la famiglia non dovessero essere trascurate dal movimento rivoluzionario al quale lei si avvicinò nel 1915 con partecipazione attiva tanto da essere una protagonista dell’“Ottobre rosso”. Dopo la rivoluzione del 1917 divenne la prima donna al mondo ministro (più precisamente, secondo la terminologia rivoluzionaria, Commissario del popolo per l’Assistenza Sociale). Contrastò Lenin capeggiando l’opposizione operaia e perciò fu spedita a fare la diplomatica in Svezia, dove svolse una preziosa opera durante la seconda guerra mondiale. Morì ottantenne Mosca nel 1952. Vogliamo ricordarla non per le sue posizioni politiche ma per le sue tesi sulla questione femminile e l’originalità del suo pensiero che si può riassumere in questi due concetti che si avvicinano molto al moderno femminismo: “non c’è liberazione della donna senza una profonda trasformazione dei rapporti tra i sessi, finora caratterizzati dalla supremazia maschile; non c’è morale sessuale nuova senza la conquista di una reale parità, in tutti i campi, tra uomo e donna”.

Non si può dimenticare un’altra attivissima rivoluzionaria bolscevica Nadezhda Krupskaja, nota per essere stata la moglie di Lenin. Seguì il marito quando fu deportato in Siberia. Prima di tornare trionfalmente in Russia Lenin visse per 16 anni in clandestinità lavorando per la causa rivoluzionaria insieme alla moglie, che condivideva gli stessi ideali marxisti. Dopo la rivoluzione Nadezhda Krupskaja ebbe nelle vicende politiche russe un ruolo di rilievo istituendo corsi di educazione politica e alfabetizzazione per le donne della classe operaia e per le contadine, combattendo inoltre la prostituzione. Per tutta la vita mantenne la sua fedeltà al marxismo e al marito al quale fu accanto quando fu colpito da ictus nel 1922, cercando in ogni modo di migliorare le sue condizioni fisiche, fino alla morte avvenuta il 21 gennaio 1924. Nelle battaglie politiche che ne seguirono si schierò con l’opposizione contro Stalin. Il libro che lei pubblicò nel 1925, “L’educazione della gioventù nello spirito di Lenin”, fu tolto dalla circolazione. Si spense il 27 febbraio 1939 e Stalin, che l’aveva odiata quand’era in vita, portò personalmente l’urna con le sue ceneri che venne tumulata dentro le mura del Cremlino, a pochi metri di distanza dal Mausoleo, dove riposa la salma imbalsamata di suo marito.

Ricca di personalità e coraggio fu Nazhezda Alliluieva, figlia del rivoluzionario Sergei Alliluev. Fu la seconda moglie di Stalin incontrato per la prima volta da lei ancora bambina, quando suo padre offrì riparo al giovane Stalin in occasione della fuga dalla prigione avvenuta nel 1908. Si sposarono nel 1919, quando Stalin aveva 40 anni, venti più di lei. Dopo la rivoluzione Nadežda fu impiegata di fiducia nell’ufficio di Lenin. Mantenne il cognome di quando era ragazza per non avere privilegi e visse in grande semplicità dedicandosi anche all’educazione dei due figli. La sua morte nel 1932 è avvolta nel mistero. Fu trovata nella sua stanza colpita da un colpo di revolver, si disse che si era suicidata ma i motivi di tale gesto non sono chiari. Stalin, secondo le testimonianze dei parenti e collaboratori, soffrì terribilmente, forse mosso dal senso di colpa per averla trattata molto duramente durante la cena che aveva preceduto quella tragica sera, e per essersi recato quella notte in casa di un’altra donna. Sicuramente si può affermare che la morte le risparmiò di assistere alla feroce repressione di ogni dissenso politico da parte di Stalin.

Abbiamo citato soltanto tre protagoniste della Rivoluzione d’Ottobre, ma chi volesse approfondire l’argomento può trovare anche in rete molte notizie su questo argomento.

Se invece si vuole capire l’atmosfera di quel tempo, si deve ricorrere alla letteratura. Credo che tutti abbiano letto “Il dottor Zhivago” di Boris Pasternak, “La guardia bianca” di Mikhail Bulgakov, “La vita dei tormenti” di Aleksej Tolstoj, “La ruota rossa” di Aleksandr Solzenicyn. Sarebbe importante rileggerli o leggerli se non lo si è fatto finora.

È opportuno ricordare anche due voci poetiche femminili che si distinsero per aver individuato la pericolosa svolta di quella Rivoluzione che con Stalin stava diventando una negazione di quanto era stato previsto nell’attuarla: Marina Cvetaeva e Anna Achmatova. La prima avversata dal regime staliniano per via delle tematiche affrontate nei suoi scritti, morì suicida; la seconda, una delle voci più alte della lirica russa del ‘900, visse come emigrata interna nella Russia sovietica, perché non accettò mai che fosse punita la libertà di espressione e pensiero negata da molti leader della Rivoluzione.

Nota. nell’immagine: Marc Chagall, Promenade, 1917-18 Russian Museum, St. Petersburg

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