Pintor, una vita che è un manifesto - Tommaso Munari
Il 24 aprile 2003, sulla prima pagina del «manifesto», il quotidiano comunista che aveva contribuito a fondare trentadue anni prima, appariva l’ultimo editoriale di Luigi Pintor. Due cartelle di 1800 battute, come tutti i suoi articoli di fondo, per un totale di 556 parole. 556 parole che sembrano scritte oggi, sin dall’incipit: «La sinistra italiana che conosciamo è morta». Le sue continue reincarnazioni – da «quercia rotta» a «margherita secca», a «ulivo senza tronco» – non erano servite ad altro, sosteneva Pintor, che a condurla a uno stato di subalternità «non solo alle politiche della destra, ma al suo punto di vista». E questa subalternità era diventata cronica. Lo dimostrava, fra l’altro, la rinuncia a manifestare contro l’invio di un contingente militare in Iraq approvato dal Parlamento, come se la pace fosse «un’opzione tra le altre» e non «un principio assoluto che implica una concezione del mondo e dell’esistenza quotidiana».
Scritto sulla soglia della morte, questo articolo condensava perfettamente sia il senso di una vita orientata da princìpi assoluti, sia un’idea di giornalismo inteso come militanza politica. L’uno e l’altra avevano preso forma nell’immediato dopoguerra quando, orfano del fratello Giaime morto partigiano nel 1943 e reduce lui stesso dall’esperienza della Resistenza, s’era affacciato al mondo della carta stampata. Il suo primo impiego fu al «Politecnico» di Elio Vittorini, ma la sua vera gavetta si svolse all’«Unità», dove entrò come cronista all’inizio del 1946 uscendone da condirettore alla fine del 1965. Una scuola decennale non solo di politica – lavorare per l’organo ufficiale del Partito comunista significava allora militare attivamente nelle sue file –, ma anche di scrittura.
È sufficiente scorrere gli articoli che pubblicò sulle pagine dell’«Unità» per apprezzare nel suo sviluppo uno stile giornalistico improntato alla sottrazione. Che dovesse riassumere un discorso di Giuseppe Saragat al congresso del Partito socialista dei lavoratori (8 gennaio 1950) o analizzare le conseguenze dell’alleanza militare fra Jugoslavia, Grecia e Turchia (10 agosto 1954) o commentare il precipitare della crisi dei missili a Cuba (27 ottobre 1962), Pintor imparò presto a limare i suoi articoli fino all’essenziale, «scoprendo che c’è sempre una riga su tre di troppo» e «che due pagine bastano a esaurire qualsiasi argomento» (Servabo, Bollati Boringhieri, 1991). Uno sforzo di sintesi che rifletteva un impegno politico e civile, che nasceva dalla necessità di capire e dal dovere di spiegare.
Attorno alla metà degli anni 60 il suo legame col Pci, a cui era iscritto dal 1943, cominciò tuttavia ad allentarsi. Sempre più schierato alla «sinistra» del Partito, capeggiata da Pietro Ingrao, nel 1966 fu trasferito dal Comitato centrale di Roma alla segreteria regionale di Cagliari, dove maturò un senso di disgusto «per la politica come professione, come tecnica e come tattica» (così in una lettera a Rossana Rossanda del 30 settembre 1967). Tre anni dopo si consumò lo strappo definitivo: la fondazione del «manifesto», una rivista di opposizione interna che nel 1971 si sarebbe trasformata in quotidiano, costò a lui, a Rossanda e ad Aldo Natoli la radiazione dal Pci.
Dalla sua macchina da scrivere cominciarono allora a uscire parole sempre più scelte, cesellate, sferzanti. «Parole al vento», dirà lui anni dopo. Nell’editoriale del primo numero, Pintor affermò che «il manifesto» mirava a diventare espressione di un nuovo movimento politico di matrice operaia e studentesca, ma al contempo intendeva essere «uno strumento di conoscenza, di intervento, di mobilitazione» (28 aprile 1971). Pur fallendo il primo obiettivo – alle elezioni del 1972 la lista del «manifesto» ottenne a stento lo 0,7% dei voti –, riuscì nel secondo. Con le sue quattro pagine su sei colonne, la nuova testata comunista si affermò come una delle voci più libere e critiche del panorama giornalistico, contribuendo in modo peculiare a quel processo di «settimanalizzazione» dell’informazione che avrebbe caratterizzato la stampa quotidiana nell’età della televisione. E questo risultato fu raggiunto anche per merito di quella ricerca dell’essenzialità che costituì sempre la cifra stilistica del Pintor giornalista. Nonché del Pintor memorialista.
All’inizio degli anni 90, mentre i suoi editoriali si coloravano di un’ironia sempre più amara (si legga il magistrale Elogio della guerra, pubblicato il 17 gennaio 1992, a un anno dall’operazione Desert Storm), il principe dei polemisti della sinistra scoprì infatti di possedere un’inaspettata vena rievocativa da cui nacquero tre volumetti di memorie incluso il già citato Servabo, da poco ristampato in francese dalle edizioni Rue d’Ulm (con una postfazione di Carlo Ossola). Qui la sintesi trapassava addirittura nell’ellissi, la brevità nella rarefazione, pur lasciando spazio a confessioni lancinanti («Può dunque capitare – e si riferiva ovviamente a sé stesso – di mettere al mondo un bambino con suo patimento, di non aiutarlo a starci, di farlo crescere in sofferenza e morire in solitudine»).
Alla luce del ricordo anche l’esperienza del «manifesto» si tingeva di rimpianto. Non solo perché il mondo era andato in direzione ostinatamente contraria ai suoi ideali, ma perché l’assoluta libertà di linea del quotidiano – l’unico in Italia a essere gestito direttamente dai giornalisti – lo aveva condannato a una costante precarietà di bilancio. «Che facciamo, che facciamo, che facciamo?», scriveva a Rossanda in un momento di sconforto per le sue sorti, «moriremo giornalisti, o morirà il giornale, o moriremo gli uni e l’altro» (per inciso, chi un giorno vorrà scrivere la storia del «manifesto» non potrà prescindere dalle carte di quest’ultima ora depositate all’Archivio di Stato di Firenze). Dunque una vita spesa a inseguire una chimera? «Se fosse per gli esiti non rifarei nulla», confessava nella Signora Kirchgessner (Bollati Boringhieri, 1998), «ma se guardo alle intenzioni è un altro discorso». Per quanto deludenti o effimeri possano essere i risultati, le buone intenzioni sono «un polline che non fiorisce mai, ma profuma l’aria».
Pessimismo dell’intelligenza, ottimismo della volontà, aveva detto un altro comunista, sardo come lui.
Fonte: Il Sole 24 ore
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