LA PESTE AD ATENE nel racconto di Tucidide
Antonello Tacconi
LA PESTE AD ATENE nel racconto di Tucidide
"Subito all’inizio dell’estate i Peloponnesiaci e i loro alleati invasero l’Attica con i due terzi delle
loro forze, come avevano fatto anche in precedenza – li comandava Archidamo, figlio di
Zeussidamo e re dei Lacedemoni – e dopo essersi accampati cominciarono a devastare la terra.
Erano nell’Attica solo da pochi giorni, quando il morbo cominciò a manifestarsi ad Atene. I
medici non riuscivano a fronteggiare questo morbo ignoto ma, anzi, morivano più degli altri, in quanto più degli altri si avvicinavano ai malati, né alcuna tecnica umana veniva
loro in soccorso. Per quanto si formulassero suppliche nei templi o si ricorresse agli oracoli e acose del genere, tutto si rivelò inutile.
Dapprima, a quanto si dice, la peste incominciò in Etiopia, poi passò anche in Egitto e in Libia, enella maggior parte della terra del re. Ad Atene piombò improvvisamente, e dapprima contagiògli abitanti del porto, così che gli ateniesi sostennero che i Peloponnesiaci avevano gettato deiveleni nei pozzi; poi raggiunse anche la città alta, e iniziò a ucciderne molti di più.
Si dica pure su questo argomento quello che ciascuno pensa, medico o profano che sia, sia sullaprobabile origine della pestilenza, sia sui fattori capaci di indurre un così repentino cambiamentodello stato di salute. Io invece racconterò di che genere sia stata, e ne mostrerò i sintomi, chesi potranno tenere presenti per riconoscere la malattia stessa, caso mai scoppiasse un’altravolta. Giacché io stesso ne fui affetto e vidi altri malati.
Senza alcuna motivazione visibile, all’improvviso, le persone venivano prese da vampate dicalore alla testa, arrossamento e bruciore agli occhi. La gola e la lingua assumevano subito uncolore sanguigno, ed emettevano un odore strano e sgradevole. Dopo questi sintomisopraggiungevano starnuti e raucedine, e dopo non molto tempo il male scendeva al pettocon una forte tosse; e quando raggiungeva lo stomaco provocava spasmi, svuotamenti di bilee forti dolori. Nella maggior parte dei casi, si manifestava anche un singhiozzo con sforzi divomito che generavano violente convulsioni.
Il corpo non era troppo caldo, né pallido, ma rossastro, livido e come fiorito di piccole pustole edi ulcere; le parti interne però ardevano a tal punto da non riuscire a sopportare nemmeno levesti leggere, né altro che non fosse l’andar nudi, e il gettarsi nell’acqua fredda. E molte persone
non curate lo fecero davvero, gettandosi nei pozzi, oppresse da una sete inestinguibile: ma ilbere molto o poco dava lo stesso risultato.
La difficoltà di riposare e l’insonnia li opprimevano continuamente. E il corpo, per tutto il tempoin cui la malattia era al suo culmine, non si logorava, ma inaspettatamente resisteva, cosicché lamaggior parte moriva dopo giorni per effetto del calore interno, avendo ancora un po’ di forza;
se invece sopravvivevano a questa fase, la malattia scendeva nell’intestino e produceva fortiulcerazioni e una violenta diarrea, e così morivano in seguito, per lo sfinimento. Infatti il male,inizialmente localizzato nella testa, percorreva tutto il corpo e infine raggiungeva le estremità,
fino ai genitali, alle mani, ai piedi e anche agli occhi: e molti si salvarono perdendo queste parti.
Altri, fisicamente guariti, smarrirono però la memoria, e non riconoscevano più se
stessi e i loro familiari.
Il morbo colpiva con una violenza maggiore di quanto potesse sopportare la natura umana, e inun particolare soprattutto esso mostrò di essere diverso dalle solite epidemie: gli uccelli e iquadrupedi che si cibano di cadaveri, sebbene molti morti fossero rimasti insepolti, o non siavvicinavano o, se si cibavano di quei resti, morivano.
Tale, dunque, era il morbo nel suo complesso. E oltre alla peste, nessun’altra malattia delle soliteinfieriva in quel tempo: e anche se sorgeva, andava a risolversi in questa. E gli uni morivano permancanza di cure, gli altri anche se erano molto ben curati. Non esisteva, per così dire,nessuna medicina che si potesse applicare in generale: quello che a uno era di
giovamento, per un altro era dannoso.
Nessun organismo, forte o debole che fosse, riusciva a combattere il morbo, ma la malattia portava via tutti quanti, anche chi era curato con la maggiore attenzione. Ma la cosa più
terribile in assoluto era lo scoraggiamento da cui uno era preso quando si sentiva male
– subito, datosi con il pensiero alla disperazione, si lasciava andare e non resisteva – e il fattoche per curarsi a vicenda si contagiavano e morivano l’uno dopo l’altro, come pecore: e questocausava la strage maggiore.
Se per timore non volevano recarsi l’uno dall’altro, morivano abbandonati, e molte case furonospopolate per la mancanza di qualcuno che prestasse le cure necessarie; se al contrariosi accostavano alle persone, morivano per il contagio, e in particolar modo quelli che cercavanodi agire con generosità: per un senso di vergogna infatti costoro non si risparmiavano, ma sirecavano dai loro amici, poiché anche il compianto sui morenti alla fine era trascurato,per stanchezza, persino dai familiari, sopraffatti dall’immensità della sciagura. Tuttaviai sopravvissuti avevano più compassione per chi stava morendo o era malato, perché ne avevanogià fatto esperienza ed erano ormai al sicuro: la malattia infatti non colpiva due volte la stessapersona in modo grave.
Oltre alla malattia, aggravava il loro disagio l’afflusso della gente dai campi; e soprattutto questinuovi arrivati erano in difficoltà. Non essendoci case per loro, ma vivendo d’estate in baracchesoffocanti, la strage avveniva nel massimo disordine e, morendo l’uno sull’altro, siaggiravano strisciando per le strade e intorno alle fontane, per il desiderio di acqua.
Anche i santuari erano pieni di cadaveri: gli uomini infatti, sopraffatti dalla disgrazia e non
sapendo quale sarebbe stata la loro sorte, cadevano nell’incuria del santo e del divino.
Tutte le consuetudini che prima si seguivano nel celebrare gli uffici funebri furono sconvolte, e siseppelliva come ciascuno poteva. E molti usarono modi di sepoltura indecenti, per mancanzadegli oggetti necessari, dato che numerosi erano i morti che li avevano preceduti: prevenendochi elevava la pira, gli uni, posto il loro morto su una pira destinata a un altro, vi davano fuoco;altri, mentre un cadavere ardeva, vi gettavano sopra quello che stavano portando, e se ne
andavano.
Anche in altri ambiti il morbo dette inizio, in città, a numerosi infrazioni della legge. Più
facilmente uno osava quello che prima si guardava dal fare per il proprio piacere, perché vedevache subitaneo e radicale era il mutamento di sorte fra coloro che erano felici, e morivanoimprovvisamente, e coloro che prima non possedevano nulla e poi avevano le ricchezze deglialtri. Cosicché miravano a godere quanto prima e con il maggior piacere possibile, giudicandoeffimere sia la vita che le ricchezze.
E ad affaticarsi per ciò che era sempre stato considerato nobile, più nessuno era disposto, poichépensava che era incerto se non sarebbe morto prima di raggiungerlo. Quello era piacevole giànel presente e che, da qualunque parte venisse, era vantaggioso per ottenere quel piacere, tuttociò era divenuto bello e utile. Nessun timore degli dei o legge degli uomini li tratteneva, poichéda un lato consideravano indifferente essere religiosi o no, dato che tutti senza distinzionimorivano, e dall’altro, poiché nessuno si aspettava di vivere fino a dover rendere conto dei suoimisfatti; essi pensavano che una pena molto più grande era già stata sentenziata ai loro
danni e pendeva sulle loro teste, per cui era naturale godere qualcosa della vita prima che
tale punizione piombasse su di loro."
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