di Fausto Bertinotti.

La politica italiana, dopo le recenti tornate elettorali, conferma la sua instabile stabilità. La risposta alla domanda su quale dei due termini dell’ossimoro è destinata ad affermarsi nel prossimo futuro è affidata alla piega che prenderà l’incertezza che, del resto è la cifra che connota questa ormai lunga e opaca fase politica tipica dell’Italia, ma non solo di essa. L’assoluta centralità del governo, ora allargata ai governatori regionali, ha fagocitato ogni dinamica partitica sul terreno istituzionale e l’ha desertificata nel Paese reale. Gli schieramenti e le alleanze tra i partiti si contendono il governo, esaurendo nella contesa ogni altro elemento della politica, fino alla scomparsa sulla scena degli elementi fondamentali, come gli aspetti ideologici, programmatici e addirittura gli elementi che connotano la natura di una formazione politica. Chi sta al governo lo fa per continuare a rimanerci e chi sta all’opposizione lo fa per giungervi. Tutto qui.

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Il quadro europeo, nella sua nuova conformazione assunta nel contrasto al Covid, rafforza il processo in atto. Il declino della tendenza politico-culturale vincente sino a ieri – una nuova destra fondamentalista, populista e reazionaria – sposta ulteriormente il baricentro della contesa sul governo, sempre più, a sua volta, sequestrato nella sfera amministrativa. Se il populismo voleva la fine della contesa classica tra destra e sinistra, il primato dell’amministrazione, che ad esso sembra subentrare quale tendenza prevalente, concorre allo stesso fine. È più precisamente la fine della politica per come si era venuta affermando in tutta la modernità. Nel campo del governo, nel nostro Paese, si sono venuti affermando due propensioni diverse, ma convergenti. Alla crisi del populismo di destra, in parallelo ad essa, si è aperta in termini ancora più esplosivi la crisi del populismo trasversale, quello personificato da Grillo e poi vissuto nei Cinque Stelle. Mentre il centrodestra è investito dal tema della sua ristrutturazione, il Pd è così risultato, per via di un processo prevalentemente alimentato da fattori esterni, il centro dell’attuale fase della governabilità, un centro immobile. L’immobilità e persino una certa sua afasia sono proprio quello che consente la tenuta elettorale del Pd, nella morte però della politica.

Le previsioni di un suo dissolvimento, con la condivisione della sorte toccata al Partito socialista francese, sono state smentite dai fatti. Il rischio si era reso evidente con il crollo di molti dei capisaldi storici che gli avevano garantito il consenso elettorale, a cui era seguita quel che è stata chiamata “la nuova contendibilità” delle sue grandi casematte regionali. La storia politicamente e culturalmente devastante ha condotto, anche in quelle realtà, da una condizione caratterizzata da un popolo innervato sul Pci e sulle istituzioni del Movimento operaio ad aggregati informi di individui-cittadini. Essa ha reso possibile quel gigantesco smottamento e ha fatto avanzare anche l’ultimo rischio. Anche senza far ricorso alla massa di saggi storici e sociologici sul tema, basta la lettura dell’ottimo lavoro di Mario Caciagli sul Valdarno, Addio alla provincia rossa, per farsene una ragione, seppure drammatica. Ma il Pd esce dalle ultime elezioni potendo vantare una tenuta, se non un’inversione di tendenza. Dunque, proprio l’immobilità ha favorito la conservazione del consenso popolare. Il declino dell’estrema destra salviniana non ne ha cancellato la minacciosità e il Pd ha finito in ogni caso per rappresentare, rispetto ad essa, un argine rassicurante. La centralità assunta nelle contese regionali, dai presidenti divenuti sul campo governatori, ha opacizzato la contesa tra i partiti, già radicalmente ridimensionati nel ruolo pubblico e nella percezione popolare.

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