di Elda Martino - il manifesto

Fondatrice  dell'associazione contro la pena di morte Nessuno tocchi Caino, militante radicale, scrittrice, morì ad appena 40 anni, subito  dopo la  pubblicazione del suo primo romanzo completo, che vincerà lo Strega nel 1995. Nei suoi paesi dell'Irpinia ora la ricordano con un  premio  letterario.
Analizzare l'opera letteraria di MariaTeresa Di Lascia (Rocchetta Sant'Antonio 1954 - Roma 1994), a distanza di  quasi  vent'anni dalla pubblicazione del suo unico romanzo completo (Passaggio  in ombra, "I Narratori" Feltrinelli, Milano 1995) e delle recensioni  che seguirono il conferimento del Premio Strega, nel 1995, è un'operazione di scavo in profondità. Come riprendere un discorso  spezzato e negletto su un fenomeno che, al suo apparire, sconvolse, sorprese e destabilizzò il panorama letterario  italiano? Come non tener conto della tragica e prematura morte di  MariaTeresa a soli  quarant'anni, pochi mesi prima della pubblicazione  del suo romanzo? Come  non ripercorrere la biografia, limpidissima e  rigorosa, di una donna  che, non è retorico ribadirlo, spese la sua  esistenza secondo un modello  di vita totalizzante, di estremo sforzo, di uscita dai labirinti  soffocanti e vacui del proprio recinto? Di  Lascia si iscrive alla  facoltà di Medicina di Napoli col preciso intento di diventare  missionaria laica, abbandonerà questa strada per  avvicinarsi alla  politica e al Partito Radicale, del quale sarà  deputato per una legislatura e vicesegretario nel 1982. È sua e di suo  marito l'idea di  fondare Nessuno tocchi Caino, con l'obiettivo dell'abolizione mondiale  della pena di morte entro il 2000.
Nel 1988  scrive La coda della  lucertola ma decide di non pubblicare il romanzo, con la novella  Compleanno vince il premio "Millelire". Coloro che la conobbero la  descrivono come una persona colma di un'urgenza verso  l'esterno, animata dalla necessità e anche dal piacere di indagare  l'altro, attenta, mai  cinica. Questa vita, sintetizzata qui in poche  righe, è anche racconto,  ricordo mediato nel romanzo, sostanza dolorosa che risale a galla per  necessità. È un segreto coltivato ostinatamente  e con impegno, è  scrittura.

 

MariaTeresa dedica molti anni della sua  esistenza così  breve a scrivere, lo fa in silenzio, a suo modo, lo fa,  credo, per  un'urgenza fortissima. In quattro anni conclude il suo  romanzo Passaggio  in ombra, gli stessi anni che la vedono impegnata sul  fronte pubblico  per i diritti umani. La dicotomia solo apparente è, in  realtà, il segno  di un carattere complesso e non pacificato, capace di  interrogarsi a  lungo nel pudore dell'intimità, una personalità lucida e  in grado di  osservare tutti con uno sguardo sempre dubbioso, incerto.  Un cuore  implacabile verso se stesso, uno sguardo disumanizzato, non  pensato, non  costruito, e per questo così assolutamente necessario in  giorni come i  nostri. Il superamento del genere è il primo passo per  ritrovare in modo  totale e generoso il valore della Di Lascia. Nelle  letture critiche che seguirono l'uscita di Passaggio in ombra,  frequente è il richiamo al  rapporto con i modelli, tutti ovviamente  femminili.

«Scrittura al femminile»
Il  risultato è che a  MariaTeresa Di Lascia - come è accaduto a tutti gli  scrittori donna  italiani - non è mai stato concesso di assumere il ruolo  che le era  dovuto. La definizione costrittiva e limitante di  "letteratura" o  peggio "scrittura al femminile" vanifica la forza e il  senso vero della capacità creativa assoluta di questa autrice e denuncia  il vizio, mai  dismesso, di una visione dall'esterno, una visione  riduttiva per  definizione. L'opera letteraria e la vita di MariaTeresa  Di Lascia si  pongono al di fuori di una norma corrente, fuori dall'idea  che  l'esistenza sia pura contabilità, rispondono a una voce, a  un'istanza  etica di fondo, in un sistema, che è prima esistenza e poi  arte,  coerente e rigoroso ma sempre umile, sempre comprensivo dell'altro più che di sé. Per questo suo farsi testimonianza - da vita che era -  si  conferma come assai più potente e viva, assai più destabilizzante e   impegnata. Leggendola, ci si trova di fronte a una scrittura fatta col   corpo e sul corpo, senza risparmiare una minima goccia di sangue, ogni accento in essa rimanda alle immagini del san Sebastiano alla colonna,   del Marsia scorticato da Apollo.

 

Passaggio in ombra è l'atto ultimo e atrocemente vero di un essere umano in costante dialogo col mondo, con   l'altro e - per questo - in costante conflitto con se stesso, nel   tentativo di superarsi, addirittura di annullarsi. Io sono, per mia   condanna, immersa e travolta dalla realtà. (MariaTeresa Di Lascia, Passaggio in ombra, Milano 1995, p. 14). Immersa e travolta dalla realtà, così si definisce Chiara, la protagonista, voce narrante del  romanzo, già dalle prime pagine. MariaTeresa e Chiara hanno evidenti   tratti in comune. La prima nasce a Rocchetta Sant'Antonio, quel rospo nero schiacciato sulla collina che, Chiara dice, si colloca in quell'altura che - su tre diversi sentieri - separa la Puglia dalla   Basilicata e questa dall'Irpinia.
Un luogo geograficamente definito e individuato, come la grande casa di donna Peppina Curatore, vicina al   castello, i campi coltivati a grano, la piazza del paese dove gli uomini si radunano per giocare a carte nei bar, le masserie isolate sulla   dorsale. È Rocchetta il paese di MariaTeresa, il paese di Chiara, quella   stessa Rocchetta che Francesco De Sanctis aveva raccontato nel suo   Viaggio elettorale, riservandole alcune delle più belle pagine del libro. Un paese dell'ultimo Appennino, posto dove l'altura inizia a   diluirsi nella pianura pugliese, un ibrido a metà tra due paesaggi, al   limite di entrambi e mai dentro a nessuno di essi, col suo castello in   cima alla rocca, popolato di corvi e di gazze e le sue ripide salite   lastricate di bianca pietra lisciata dall'acqua. Il sud di Chiara e   quello di MariaTeresa coincidono facendosi luogo ricordato più che   vissuto, descritto attraverso il filtro, lungo e lento, della memoria. La parte più nascosta e intima, il grumo molle e delicatissimo di   un'esistenza diventa materia da narrare, forse come congedo dalla vita   stessa, un congedo consapevole e doloroso, un atto dovuto e splendente di svelamento totale. La famiglia D'Auria è uno dei nuclei nei quali si muove Chiara. Francesco D'Auria, suo padre, era un uomo qualunque che   fece le cose che empiono le cronache ordinarie della vita; molte di esse sono squallide e volgari, ma portano il segno dei tempi in cui  viviamo.  Francesco, che ha fatto la guerra, che dà il suo cognome a Chiara dopo  la nascita senza sposarsi, che la rende sua complice di  giochi, che  abbandona Anita, la madre di Chiara, il giorno del  matrimonio. Francesco  è il figlio di Tripoli, l'estremo limite del  mondo maschile  meridionale, del tutto impenetrabile agli occhi della  bambina. Francesco  è il fratello di Giuppina, violentata e messa in  cinta dal compare.  Francesco è il nipote di donna Peppina Curatore che  alleverà Chiara dopo  la morte di Anita, resa sterile dalla sifilide  trasmessale dal marito.  Anita, Giuppina, Peppina, Rosina, la balia,  Titina e altre donne, tutte  con storie trasmesse sussurrando, tutte  rivolte verso Chiara, verso il  suo futuro che dovrà essere a ogni costo  luminoso, un riscatto per le  loro esistenze costrette o spezzate. Il  nodo più doloroso del  romanzo sta, tuttavia, nel paragone con la  figura di Anita, la madre-eroina che vive i suoi sogni strenuamente  fino a morirne, colei  che, come una sorta di Antigone, non cede al  mondo della norma - che è  norma maschile - scegliendo la morte. Un archeologo della psiche, uno  scavatore delle coscienze troverebbe  proprio in mia madre, in quel  coraggio che in lei scorreva innato, la  sfida irraggiungibile a cui mi  sottrassi; il coraggio e la forza della  madre contro l'inettitudine  della figlia prigioniera della vita...  rimasta una creatura di confine.  Ciò che vince Chiara, o che la rende  già vinta sin dalla nascita, è la  colpa di non avere coraggio. Una  vigliaccheria che si attribuisce dal  principio e che le impedisce di accostarsi a ciò che ella crede sia la  vita. Chiara non esplicita i  suoi desideri, li lascia appassire nella  dimensione del sogno,  dell'immaginario, della visione. La persistenza  della sua abiezione è  l'unica forma di lotta che può scegliere contro la  necessità del  vivere.
Abdicare alla vita diviene la soluzione.  Esiliarsi nel  disordine di cose ammassate senza criterio. Eppure questa  condizione  ultima deriva da qualcosa di più profondo, da un desiderio più intimo e  nascosto che, solo da adulta, Chiara riesce a pronunciare;  in questo  suo narrare che è cercare l'inizio di ogni inganno, Chiara  ammette di  appartenere a quella specie di certe creature irrisolte, che  denunciano  fin dall'aspetto il proprio ibrido destino, a causa di questa  discendenza prima di tutto non le è mai stato possibile smemorarsi di   se stessa completamente.

Un premio in suo nome a Fiuminati

Anche   la cosiddetta denuncia sociale è estranea alla scrittura della Di  Lascia, per il motivo che questa scrittura possiede in sé il germe del   suo fallimento, quello di una lettura individuale e soggettiva del mondo   che pretende di farsi verità e realtà oggettiva, tale presunzione di  verità non è presente, l'autrice avverte questo pericolo e lo indica al   lettore come spezzatura del suo scrivere, che corre sul filo del sogno  e  della suggestione, anche quando pare raccontare il fatto in sé, la  cosa  in sé. La realtà è solo il velo ricamatissimo e prezioso che ricopre la  vera dimensione del racconto, che è fatto di scrittura  immaginifica e  visionaria. Tutto si sbriciola sotto il peso di ricordi,  relazioni,  parole, suoni, odori, sensazioni tattili tutte mediate dal  ricordo e dal  sogno. La scrittura più bella si trova quando la  tentazione di  descrivere ciò che - solo ai nostri occhi - appare come  materiale cede  il passo alla visione. Di Lascia non consente mai  davvero al mondo, pure  descritto, sezionato e analizzato in ogni suo  più minimo dettaglio, di  prendere il posto della dimensione creativa,  il posto della letteratura e  della storia interna. L'effetto è quello  di una visione ampia che mano a  mano, in un processo di restringimento  del campo ottico, si focalizza  su caratteri e storie individuali, prima  solo accennate, poi descritte e  narrate fino al parossismo ripetitivo  della ricorrenza, della variante.
È un romanzo, Passaggio in ombra, un  bel romanzo, è una storia in parte  autobiografica, è una riflessione  sull'esistenza, sullo stare nel mondo  e sul come starci, sulle  possibilità che ci vengono date e, poi,  improvvisamente, strappate via,  è una domanda costante e anche l'indicazione di un pericolo, è una  richiesta di coraggio, di vita. È  un'opera complessa, giocata su più  piani, elegante nella sua apparente  semplicità, densa di respiro, densa  di uno sguardo verso l'Esterno,  sbilanciata verso la voragine del  fuori da sé. MariaTeresa Di Lascia  ora riposa a Fiuminati, il paese  di sua madre, dove lei ha voluto  essere seppellita. I suoi due paesi,  Fiuminati e Rocchetta Sant'Antonio,  le hanno dedicato un premio letterario, la ricordano con quell'affetto  mite e gentile di cui solo  alcuni luoghi, nell'Appennino d'Italia, sono  capaci. E Chiara, nel suo  silenzio apparente, forse attende ancora il  giorno in cui, rivedendo  suo padre, insieme, si abbandoneranno a un  sorriso, ormai pacificati e consapevoli che l'unica certezza è un luogo  dove il futuro si è già  compiuto.

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