di Attilio Gambacorta 

Parlare di Enrico Berlinguer a cento anni dalla sua nascita vuol dire ripercorrere criticamente la sua vicenda politica. 

Berlinguer ha rappresentato la speranza di cambiamento in un’epoca in cui il cambiamento sembrava lì vicino, ad un passo dal raggiungerlo, e tutto lasciava presagire che sarebbe arrivato, che l’umanità intera si sarebbe emancipata, che le forze della reazione fossero sconfitte per sempre.

Viene eletto segretario del PCI il 13 marzo 1972 nel famoso XIII congresso del Palladio di Milano succedendo a Longo, ormai anziano e malato e non più nelle condizioni necessarie per guidare il più grande partito comunista dell’occidente. 

L’onda lunga del ’68 si faceva fortemente sentire, le rivendicazioni sindacali e le lotte operaie avevano ottenuti risultati eccellenti, sintetizzati nello “statuto dei lavoratori” entrato in vigore nel 1970, anche se il PCI si astenne alla sua approvazione per i limiti di rappresentanza dovuti all’esclusione dei lavoratori occupati nelle aziende con meno di 15 dipendenti. Ma il riconoscimento di diritti inalienabili, come il diritto di sciopero, al giusto salario, al tempo libero (il tempo del lavoro, il tempo della vita), costituirono certamente un avanzamento ed un miglioramento significativo delle condizioni materiali dei lavoratori. La società reale si avvicinava così ai dettati costituzionali, l’obiettivo della piena occupazione non più un’utopia.

Questa decisa avanzata sociale della sinistra e del movimento sindacale misero sotto pressione la parte reazionaria del Paese e dell’alta borghesia che ancora controllava e gestiva le leve del potere. 

Nel 1964 il “piano solo”, l’attentato di Piazza Fontana, il tentato “golpe Borghese” del 7 e 8 dicembre 1970, azioni che riconducevano alla cosiddetta “strategia della tensione”, ovvero al tentativo di sovvertire l’ordine repubblicano nato dalla “Resistenza”, stavano a dimostrare come fosse radicata fra le élite italiane la volontà di affermare un potere autoritario che si liberasse di sindacati, forze sociali e politiche progressiste. 

Il PCI, con la sua organizzazione di massa, con i suoi tantissimi iscritti, con i suoi lavoratori, con i suoi studenti, con i suoi intellettuali, fu senz’altro una forza che garantì la democrazia in Italia, contrastando con la lotta sociale e con la politica questi tentativi pseudo fascistoidi. Ma difese il Paese anche dall’infantile “terrorismo rosso” che colpiva le persone più indifese, anche sindacalisti, come Guido Rossa, barbaramente ucciso dalle Brigate Rosse nel 1979.

L’11 settembre 1973 il democratico e progressista governo cileno di Salvatore Allende fu destituito da un colpo di stato, con la complicità, ormai storicamente accertata, della CIA americana e dello stesso governo USA, del suo Presidente e del suo Segretario di Stato. Pinochet, quindi, poté attuare ciò che fu impedito a Junio Valerio Borghese, detto anche “il Principe Nero”, nel 1970.

Tutto questo preoccupava il giovane segretario. E proprio all’indomani del colpo di stato cileno con i tre celebri articoli pubblicati da “Rinascita”, storica rivista culturale e politica del PCI, lanciò il “compromesso storico”. I successi elettorali alle elezioni amministrative del 1975 e quelle politiche del 1976 incoraggiavano tale svolta.

A valutare oggi quella proposta tante critiche si possono fare, non che non avesse le sue forti fondamenta, stante la situazione nazionale ed internazionale, ma, a mio avviso, certamente con il senno del poi, le critiche rivestono i risultati che quella politica produsse. 

Iniziava una crisi strutturale del capitalismo mercantile a livello mondiale, segnata dalla crisi energetica e petrolifera, dalla guerra in Medioriente. Anche nel cosiddetto blocco sovietico si evidenziavano segni sempre più forti di contraddizioni sociali, economiche e politiche che avrebbero portato all’esplosione di quel mondo, che comunque ancora rappresentava un elemento di alternativa al capitalismo, favorendo nell’occidente politiche Keynesiane. 

Le condizioni, quindi, per una svolta politica erano tutte più che valide, ma erano, purtroppo più che valide quelle che si opponevano a quella scelta. 

Ma l’idea era affascinante. Che le forze politiche più popolari si impegnassero insieme per traghettare il Paese intero verso una più diretta democrazia, dove la giustizia sociale fosse la stella polare, dove il riconoscimento dei diritti civili e materiali delle classi sociali subalterne fossero un obiettivo strategico, dove il lavoro ed i lavoratori fossero la spina dorsale del Paese, rappresentava quello che un partito di massa moderno e progressista doveva perseguire. 

Teorizzò la politica anche dell’austerità, criticata aspramente dalle forze a sinistra del PCI. Eppure, rappresentava un anticipo di quelle politiche ambientaliste che lì a poco andarono via via affermandosi. Era una critica alla società dei consumi, ad un modello di sviluppo capitalistico del quale oggi vediamo danni irreparabili: dai virus che infettano intere nazioni e popolazioni, al riscaldamento globale, alle diseguaglianze sempre più inaccettabili fra stati e cittadini, all’aumento vertiginosa delle povertà.

Ma non ci riuscì, il destino abitava in via Fani. Non possiamo dire quello che sarebbe successo con Aldo Moro in vita e Presidente della Democrazia Cristiana. Certo è che “il caso Moro” è una delle pagine più oscure della nostra storia, purtroppo non l’unica, ma certamente quel tragico evento cambiò il corso della storia del nostro Paese e forse del mondo intero.

Ma è altrettanto certo che il “compromesso storico” non si realizzò. Il potere democristiano soffocò sul nascere quella che poteva essere una vera stagione di riforme progressiste, la conquista del PSI di Bettino Craxi annunciò gli anni ’80.

Berlinguer capì che quella strada non era più percorribile e il PCI tornò ad esercitare una politica di opposizione ad una maggioranza che si andava configurando nel pentapartito (DC, PSI, PSDI, PRI, PLI).

Nella famosa intervista di Gianpaolo Pansa pubblicata da “Repubblica” parlò di “questione morale”, anticipando di un decennio la stagione di “mani pulite”. Parlò di partiti che avevano occupato le istituzioni per una gestione speculare del potere. È quello che stava succedendo e quello che l’inchiesta scoperchiò nei primi anni ’90 determinando la fine dei partiti costituenti e della prima repubblica. 

Bella e suggestiva fu l’immagine di Berlinguer davanti ai cancelli della Fiat di Mirafiori del 1980, contornato da migliaia di lavoratori in lotta per la difesa del posto di lavoro e per il riconoscimento come soggetto collettivo, come classe sociale. 

Sappiamo tutti come andò a finire, quella fu l’ultima battaglia sindacale, persa malamente che segnò una cesura con le conquiste sociali del decennio precedente. Circa 40000 lavoratori della Fiat furono licenziati. Lì a poco, il “decreto San Valentino”, che tagliava di 4 punti la scala mobile, completò l’inizio della restaurazione capitalistica. Il capitalismo andava verso una finanziarizzazione speculativa, rapace e senza scrupoli, si rovesciava così la lotta di classe. 

Questi cambiamenti radicali per Berlinguer erano chiari, da qui la necessità di tenere unito il partito, l’unico soggetto capace di poter resistere a tanta forza ed aggressione, ma nel PCI iniziavano a teorizzarsi ipotesi di fuga da quella che era la sua natura fondativa: il partito dei lavoratori a difesa delle classi sociali più deboli che perseguiva un cambio di paradigma sociale per progettare un’alternativa di società.

Ci resta l’immagine di Padova, la tenacia di un uomo che non voleva arrendersi alle forze che volevano distruggere sul nascere ogni idea di cambiamento reale. 

La storica piazza di Roma fu invasa da un popolo intero, lacrime sincere scendevano da ogni viso. La commozione colpì tutti, anche chi da casa vedeva le immagini di quell’ultimo saluto ad un uomo che aveva dato speranze e forza a tanti lavoratori e cittadini che credevano nel socialismo come società di uomini liberi ed uguali che volevano trasformare “lo stato di cose esistenti”. 

Quella stagione politica è ormai lontana, il mondo è regredito, il PCI si è sciolto, i tentativi di ricreare una sinistra radicale falliti anch’essi, ma le ragioni di quell’esistenza sono ancora maledettamente validi e dalla storia si può imparare, perché anche se non si ripete, insegna. E quelle storie vanno ancora studiate per capire e riannodare un filo che si è spezzato, ma che bisogna ricucire

La storia non è finita

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