di Giuseppe Mattioli

 

Interessante articolo tratto dalla rivista culturale Rinascita del 28 luglio 1962

riproposto da Luciano Canfora.

 

Il vizio radicale del riformismo sta nel fatto che, in qualsiasi situazione, esso tende sempre a dimenticare e cancellare l’obiettivo generale e finale del movimento operaio, che è l’abbattimento del capitalismo, l’avvento al potere e la costruzione di una società socialista. In una situazione rivoluzionaria acuta, quando questi obiettivi possono e debbono essere raggiunti con una lotta immediata, dimenticarli e cancellarli è tradimento. Traditori furono quei capi socialdemocratici che, nella crisi acuta del dopoguerra, si unirono ai borghesi per impedire che la grande breccia aperta dalla rivoluzione di ottobre venisse allargata e tutta l’Europa diventasse socialista. La loro azione, però, non ebbe in quel momento alcun carattere riformista: fu pura controrivoluzione. Ma le situazioni rivoluzionarie acute non sorgono molto di frequente e non si creano a piacere. Non basta affermare che si pone il problema del potere con una lotta rivoluzionaria diretta. Quando non ci si trova di fronte a uno di questi nodi storici si deve quindi ritenere che il movimento della classe operaia sia costretto a stagnare, non sia in grado di proporsi obiettivi immediati concreti, che possono  essere raggiunti e costituiscono quello che Lenin stesso chiamava un “prodotto marginale della lotta di classe rivoluzionaria”? È evidente che in questa situazione la lotta per le riforme, sia economiche sia politiche, assume una importanza fondamentale. Il riformismo, anche in questo caso , tende a dimenticare gli obiettivi finali della lotta delle classi lavoratrici, isolando la riforma stessa dal complesso della lotta per superare il regime capitalistico. L’azione della classe operaia in conseguenza di questa rottura tende ad arrestarsi, perde il suo slancio, il suo entusiasmo, la molla che lo spinge ad avanzare. La lentezza diventa questione non più soltanto di misura, ma di qualità. Il movimento operaio, stagnando attorno a una posizione riformista, si riduce ad essere forza subalterna in una società capitalistica, non riesce a vedere in ogni successiva sua conquista, anche parziale, un passo compiuto verso l’obiettivo finale e a servirsi di esso per procedere con maggior sicurezza e più spedito.

Vi sono Paesi dove l’avanzata della classe operaia è oggi impedita da una aperta violenza reazionaria. E’ assai probabile che, in questi Paesi, non si avrà il crollo dei regimi reazionari che non sia accompagnato da un crollo, più o meno esteso, delle stesse strutture capitalistiche, davanti al quale anche un movimento riformista sarà probabilmente spinto ad avanzare più in fretta che non sia nel suo costume. Dove poi esistono ordinamenti democratici, come da noi, che si reggono sulla presenza e combattività di un forte movimento popolare democratico e rivoluzionario, la via del riformismo non può essere presa senza affrontare riforme tali che incidano, più o meno profondamente, nella struttura stessa del capitalismo. I socialdemocratici italiani non fecero del riformismo sino a che collaborarono nei gruppi centristi. Oggi incominciano a volerlo fare. Perché non dovremo incoraggiarli a farlo veramente? Possiamo noi escludere che l’impegno per delle riforme profonde, sostanziali, li porti ad essere più vicini, di fatto, ai comunisti che non ai democristiani e soprattutto all’ala conservatrice di quel partito? D'altra parte, la profondità delle riforme, e quindi la velocità stessa del movimento, non dipenderà  da loro soltanto; dipenderà anche e prevalentemente da noi, cioè dalla ampiezza, profondità e slancio che il movimento operaio riuscirà ad avere e a mantenere. Dipenderà dal fatto che, per l’azione di un partito rivoluzionario, com’è il nostro, non si perda mai, nelle masse lavoratrici, la coscienza del legame tra le riforme parziali e gli obiettivi più profondi del movimento operaio e socialista, e questi non vengano mai cancellati né offuscati.

La qualità stessa del partito, il suo carattere di massa e i suoi orientamenti ideali e pratici acquistano, in questo sviluppo, una importanza decisiva. Quello che farebbe comodo ai democristiani sarebbe un partito comunista che combattesse il riformismo con pure contrapposizioni verbali, con vuote invettive e con quelle cosiddette “alternative globali” che di rivoluzionario hanno l’aspetto e il suono, ma nulla più. Nello stesso scritto di Lenin che abbiamo citato all’inizio vi è, a questo proposito, un ammonimento prezioso.

”Per il rivoluzionario del giorno d’oggi- ammonisce- il pericolo più grande, forse, persino il solo pericolo è di esagerare il rivoluzionarismo, la dimenticanza dei limiti e delle condizioni di una applicazione opportuna ed efficace dei mezzi rivoluzionari, E’ qui che i veri  rivoluzionari si sono più spesso rotto l’osso del collo, a perdere la testa, a smarrire la capacità di riflettere col massimo sangue freddo e a mente chiara, di pesare, di verificare in quale momento, in quale circostanza, in quale campo di azione si deve saper agire in modo rivoluzionario e in quali circostanze e in quale campo di azione si deve sapere passare a una azione riformistica”.

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