di Maria Pellegrini.

La notizia che campeggia oggi sui quotidiani, l’uccisione di una ragazza colpevole di essere fidanzata con un trans, porta a considerare «quanto sia necessario approvare la legge contro l’omofobia» (da Repubblica). Dalla lettura dei quotidiani dei mesi passati emerge che durante il lockdown la discriminazione contro migranti, omosessuali, lesbiche, transessuali ed ebrei è aumentata. In Italia siamo in attesa di una legge contro la spirale d’odio che si riversa «contro le persone ritenute “non conformi”, perché libere e diverse per orientamento sessuale e identità di genere». Il disegno di legge sull’omotransfobia è malvisto anche dalla Chiesa cattolica che vede in esso un pericolo per la sacralità della famiglia, ma un certo oscurantismo su questi temi è diffuso anche nella società civile odierna.

Parlando di differenze di genere e delle loro relazioni, viene da considerare che soprattutto gli amori omoerotici al femminile sono visti con disprezzo e perciò nascosti. Anche nella letteratura antica, greca e romana, sono stati - con alcune eccezioni - scarsamente documentati mentre è molto raccontata l’omosessualità di eroi (Achille e Patroclo, Oreste e Pilade), di dei (Zeus e Ganimede, Apollo e Giacinto, Eracle e Ila) o di personaggi storici (l’imperatore Adriano e Antinoo).

Tra il VII e il VI secolo a.C. la poetessa greca Saffo - nativa dell’isola di Lesbo, una delle pochissime voci femminili del mondo antico che ha avuto consenso unanime della critica di ogni età - canta il suo amore per le giovani del tiaso, una istituzione entro la quale lei è educatrice di una comunità di ragazze con il fine, ma non il solo, di prepararle alla vita coniugale e matrimoniale. Sono giovani di famiglie altolocate alle quali Saffo insegna a essere seducenti, a vestirsi e muoversi con grazia, ad essere testimoni della dea Afrodite, la dea dell’amore di cui lei si considera la sacerdotessa.

Nel tiaso nascono anche amori omoerotici la stessa Saffo prova un’intensa passione per alcune ragazze e per questo da lei hanno origine i termini lesbico e saffico. A molte delle fanciulle Saffo dedica poesie che evidenziano un sentimento che è non semplice affetto: «Sei giunta, hai fatto bene, io ti bramavo. / All’animo mio che brucia di passione, hai dato refrigerio».

Quando torna alla sua mente una giovane partita per andare sposa in terre lontane, il dolore per la separazione rende l’aspetto della fanciulla evocata simile allo splendore della luna: «Ora ella risplende tra le donne di Lidia / come talora, tramontato il sole, / la luna dalle dita di rosa / vince tutte le stelle. / La sua luce sfiora il mare salato /e i campi screziati di fiori».

Alla partenza di un’altra ragazza esclama: «Avrei davvero voluto morire / quando lei mi lasciò in affannoso pianto».

Del poeta greco Alcmane, vissuto a Sparta nella seconda metà del VII secolo a. C., considerato l’iniziatore della poesia d’amore, abbiamo un Partenio (un carme recitato da un coro di fanciulle, talora accompagnato da musica e danza) il cui testo molto frammentario è tramandato su un papiro trovato in una tomba ed esposto al Louvre. Il coro loda due fanciulle una, Agidò, esaltata per la sua bellezza e paragonata al sole, l’altra, Agesicora, la corifea (colei che guida il coro), è seconda in bellezza: il suo viso è d’argento e la sua chioma è d’oro, assimilata al cigno per l’armonia del canto. «È Agesicora che mi strugge, lei dalla chioma bionda è desiderabile» canta il coro di giovinette che con continue lodi esaltano con allusioni erotiche le due ragazze «più melodiose delle sirene».

In un altro Partenio è lodata Astimelusa, che con lo sguardo suscita nelle compagne «un desiderio che scioglie le membra, ma più struggente del sonno e della morte, né vana è la sua dolcezza». Ma lei non si cura di loro «è come un astro che traversa veloce lo splendore del cielo o come un ramo d’oro o lieve piuma».

Da questi frammenti appare chiaro che le ragazze, riunite in istituzioni affini al tiaso di Lesbo, avessero rapporti omoerotici.

Nel IV secolo a. C. il filosofo greco Platone nel “Simposio” afferma che ci sono «donne che per nulla pensano agli uomini, ma più volentieri sono propense ad amoreggiare con donne».

Un altro esempio ce lo fornisce Luciano di Samosata, esponente di rilievo della Seconda Sofistica, corrente filosofica e letteraria affermatasi nel II secolo d. C. in Asia Minore, fondata sullo studio della retorica rivolta al culto della bella forma, allo sfoggio di abilità stilistica in argomenti futili o di scarsa importanza. I retori viaggiano da una parte all’altra dell’impero per tenere conferenze sui più svariati argomenti facendo della retorica una forma di intrattenimento e di spettacolo.

Nel suo “Dialogo delle cortigiane”, Luciano ci lascia un prezioso documento sulla vita quotidiana di alcune lesbiche che i greci con disprezzo chiamavano “compagnacce” ἑταιρίστριαι, mettendo in scena due cortigiane, Clonario e Leena, che con grande ingenuità si scambiano confidenze. Raccontano di una certa Megilla che si fa chiamare Megillo, e che poi sposa Demonassa. Poiché viene da Lesbo, Leena commenta: «Dicono che ci sono donne così a Lesbo, con facce da maschi, rifiutano categoricamente di sposarsi con uomini, ma solo con le donne». Megillo seduce poi la stessa Leena, che però esce disgustata da tale esperienza e non vuole parlarne.

Quando Megillo afferma all’amica: «sono nata uguale a voi, ma il pensiero, il desiderio e tutto il resto sono da uomo», si intuisce quanto Luciano fosse perfettamente in grado di concepire e descrivere il concetto di psiche maschile in corpo femminile.

Anche dagli autori latini l’omoerotismo femminile è di solito percepito come inopportuno e di cui non si ama parlare. Rappresentazioni audaci di amore lesbico si trovano negli affreschi pompeiani, ma nella letteratura latina il lesbismo non è visto in buona luce e spesso considerato con disprezzo.

Nel I secolo d. C. il letterato e filosofo greco Plutarco ricorda che «a Sparta alcune donne trovavano l’amore tra le braccia di altre donne». Le donne con tali inclinazioni sono rappresentato come estremamente mascoline, le loro relazioni sono definite mostruose, licenziose, innaturali, vergognose.

Famosa, nel libro IX delle Metamorfosi di Ovidio, poeta d’età augustea, la storia di Ifide che si svolge a Creta. Un certo Ligdo, uomo con pochi mezzi, dice alla moglie Teletusa, incinta, che se fosse nata una bambina avrebbe ordinato di eliminarla. La donna si dispera quando partorisce una bambina. In sogno le appare la dea Iside che la esorta a tenersi comunque la creatura e a nascondere a tutti quale sia la verità. Il padre lo chiama Ifide, nome del nonno, adatto per entrambi i sessi e ciò conforta la madre. All’età di tredici anni l’adolescente è promessa in sposa da suo padre a una ragazza bellissima di nome Iante. Ma accade che secondo il racconto di Ovidio: «un reciproco amore sboccia nei loro cuori ingenui / ferendoli entrambi; ma diverse sono le aspettative: / Iante non vede l’ora che venga il tempo delle nozze promesse, / convinta che colei che crede un uomo presto sarà suo marito». Diverso è il sentimento di Ifide fermamente convinta che il loro amore non potrà concretizzarsi. Queste sue angosce sono espresse in un lungo monologo che costituisce un unicum nella letteratura latina per la sua esplicita dichiarazione di un amore omosessuale femminile. La giovane crede che non sia possibile il matrimonio e piangendo esclama: «Che fine farò. So bene di essere posseduta da una passione amorosa inaudita, strabiliante» e dice a se stessa che pure arde d’amore per Iante: «Perché non ti liberi di questa fiamma sconsiderata e stolta? [...] è la natura che non lo vuole». Anche la madre è preoccupata e più volte rimanda le nozze accampando scuse. Il tempo dell’attesa finisce, rimane un giorno e le nozze devono celebrarsi; Teletusa si reca con la figlia al tempio di Iside e si rivolge piangendo alla dea: «Se questa mia figlia è in vita è per tuo consiglio. Abbi pietà di entrambe e aiutaci in qualche modo».

Mentre madre e figlia escono dal tempio, avviene uno straordinario cambiamento nell’aspetto di Ifide che da donna sta diventando uomo: il suo passo è più lungo ed energico del solito, il corpo è irrobustito, i lineamenti più duri, i capelli più corti e privi di ornamenti. «Il giorno dopo, appena i raggi del sole tornano a illuminare il vasto mondo, Venere, Giunone e Imeneo si recano alla cerimonia nuziale e Ifide, “il giovane Ifide”, fa sua Iante». Ciò è accaduto solo grazie all’intervento di un dio. Lo stesso sentimento d’amore della ragazza per Iante è visto come qualcosa di indicibile e contro natura. La metamorfosi rimuove la trasgressione dell’omosessualità femminile e fa rientrare i due personaggi nella normalità di un rapporto eterosessuale regolarizzato dal matrimonio. Ovidio, che ha cantato l’amore anche omosessuale in numerosi suoi versi, con il racconto di questa vicenda sembra riportare la disapprovazione presente a Roma per una passione erotica se espressa da una donna per un’altra donna.

Seneca il vecchio, padre del più noto omonimo filosofo, vissuto a cavallo tra il I e il II sec. d. C., nelle “Controversie” narra di un marito che ha ucciso la moglie sorpresa a letto con una donna, e ciò fa supporre che tale forma di adulterio fosse considerata un crimine insopportabile più dello scandaloso rapporto adulterino avuto con un uomo.

Marziale, poeta satirico latino del I sec. d. C ci fornisce due significativi esempi di questa visione della donna che ama un’altra donna.

Nell’ Epigramma 9 del I libro entra in scena Bassa: «Poiché vedevo che non stavi mai in compagnia dei maschi / e che nessun pettegolezzo ti assegnava, Bassa, un amante, / ma una schiera di donne prendeva parte vicino a te / a tutte le cerimonie, senza la presenza di uomini, / mi sembravi, te lo confesso una Lucrezia. Ma tu, / delitto orrendo, eri una violentatrice […] la tua lussuria prodigiosa finge di fare la parte del maschio. / Hai escogitato una mostruosità degna di un indovinello tebano: / ci può essere un adulterio senza la presenza di un uomo?»

Nell’epigramma 67 del libro VII abbiamo il personaggio di Filenide che molto più esplicitamente e con linguaggio crudo è presentata «più libidinosa di un uomo».

E nell’epigramma 70 del VII libro: «Oh Filenide, la più lesbica fra le lesbiche, fai bene / a chiamare amica la ragazza con cui hai sporchi rapporti».

Giovenale nella VI satira, il più violento attacco contro la natura perversa della donna, non può che guardare con disprezzo due donne che di notte, passando con la lettiga davanti all’altare della Pudicizia, «fanno fermare le loro lettighe, proprio qui vogliono orinare e inondano dei loro zampilli la statua della dea e a turno si beffano di lei e si cavalcano a vicenda».

Giamblico di Calcide (245-325 d. C.) un filosofo siriano di lingua greca vissuto in età romana, nei “Babyloniaca” un romanzo ampio, ricco di esotiche avventure, dopo aver descritto una principessa egiziana che ama e sposa un’altra donna afferma che «un tale amore è selvaggio e senza legge».

La relazione tra donne, dunque, è inconcepibile agli occhi degli antichi, proprio perché «non prevede sottomissione, non può simbolizzare trasmissione di potenza come in un rapporto eterosessuale», scrive Eva Cantarella in “Secondo natura”.

Immagine: Canova, Erma di Saffo, Museo Arte Moderna Torino

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