La propaganda è la distorsione della realtà, che è esattamente ciò che fanno continuamente il Governo dell’Italia e quello dell’Umbria.

Il tasso di disoccupazione tra i 20 e i 64 anni sale dal 64,8% del 2022 al 66,3% del 2023, una crescita di 1,5 punti, contro un aumento medio della UE di 0,7%; il tasso di disoccupazione è sceso dall’8,1% al 7,7%. Bene. Molto bene. Ma la realtà è più complessa.
L’Italia rimane l’ultima per il tasso di occupazione (66,3%, contro la media UE del 75,3%) e ha una disoccupazione sopra la media: il 7% contro il 6%.
I redditi reali delle famiglie sono sopra solo alla Grecia: a fronte del dato medio europeo in crescita, il dato delle famiglie italiane nel 2023 era pari al 93,7% di quello del 2008.
A dieci anni dal Jobs Act, il mercato del lavoro è sempre più povero e precario. La gran parte dell’occupazione generata nell’ultimo decennio è stata prevalentemente a tempo determinato, con una crescita costante del part time. La differenza, cioè il disallineamento – come lo chiamano gli economisti – strutturale tra la dinamica degli occupati e quella delle ore lavorate testimonia come una quota rilevante degli occupati sia caratterizzata da percorsi lavorativi instabili, frammentati e intermittenti. Il rapporto tra salari e produttività è segnato da una produttività che, rispetto alle altre maggiori economie europee, accusa un grave ritardo: +10% in Italia dal 1990 al 2023, contro +24%, +25% e +27% in Spagna, Francia e Germania.
Il dato salariale è altrettanto negativo: dal 2008 al 2023, l’Italia ha visto l’indice medio dei salari reali ridursi quasi di 11 punti, a fronte di una crescita di analoghe dimensioni in Germania e, seppur più contenuta, in Francia (dati di Dario Guarascio dell’Università La Sapienza di Roma).
Le cause della nostra fragilità strutturale sono: la stagnazione della domanda, il contenimento della spesa pubblica, in particolare gli investimenti chiave per lo Stato sociale, e politiche del lavoro che hanno favorito la precarietà, condizionando negativamente i consumi; la crescita di un’offerta di settori come turismo e ristorazione, a bassa produttività, in cui la competizione è basata sui bassi salari. Tutto ciò determina un modello di sviluppo fondato sul lavoro povero, che conferma il declino economico italiano.
Il calo prolungato della produzione industriale (diciotto mesi di fila, 6,7%), il ridimensionamento del settore costruzioni, dopo la fine degli incentivi, la situazione reddituale delle famiglie e la congiuntura sfavorevole della Germania fanno realisticamente ritenere che la situazione a breve non migliorerà, ma potrebbe addirittura peggiorare.
A confermare il quadro non incoraggiante è la diminuzione delle unità di lavoro a tempo pieno, un indicatore che va a braccetto con la crescita perché, a differenza dei dati positivi sul numero degli occupati, tiene conto delle ore effettivamente lavorate.
Il reddito disponibile lordo delle famiglie preoccupa. Il dato italiano nel 2023 era ancora di 6,3 punti sotto il 2008 (e 8,5 punti sotto il picco del 2007). Solo la Grecia ha dati peggiori dei nostri. Fatto 100 il reddito delle famiglie nel 2008, in Italia l’indice a fine 2023 segnava 93,74, in Grecia 72,1, in Spagna 95,85 punti, in Francia 108,75, in Germania 112,59; la media UE è di 110,82.
In Umbria gli stipendi sono ancora sotto la media nazionale, come ci dice la CGIA di Mestre. Gli occupati del nord del Paese hanno una retribuzione media giornaliera lorda di 101 euro, al sud è di 75 euro, cioè del 35% inferiore ai lavoratori del Settentrione. La produttività, dovuta alle tecnologie, ai macchinari, alle infrastrutture ecc., è +34% al nord.
A livello regionale, la retribuzione media annua lorda dei lavoratori della Lombardia è pari a 28.354 euro, in Calabria a 14.960, cioè poco più della metà. L’Umbria è la dodicesima regione, con una retribuzione media annua di 20.223 euro, a fronte di una retribuzione media italiana di 22.839. Perugia è al 53° posto tra le province, con 20.220 euro: Terni al 52°, con 20.228 euro.
Abbiamo un progressivo invecchiamento della base occupazionale. In Umbria, nel 2021, era over 59 il 6,7%; nel 2022, il 7,3%. In Italia, nel 2021, era il 6,1% e nel 2022 il 6,6%; nel Centro si è passati dal 7,3% al 7,4%.
Tutto ciò determina la conferma di un modello di sviluppo fondato sul lavoro povero, come abbiamo già detto.
Che fare, quindi? Sicuramente occorre nell’immediato aumentare salari, stipendi e pensioni, introdurre un salario minimo, ma sarebbe meglio un salario giusto, di almeno 10 euro lordi l’ora, e fare massicci investimenti pubblici in ambiente, istruzione, trasporti, casa e soprattutto nella Sanità pubblica.

Stefano Vinti

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