Il nuovo articolo 18: la monetizzazione del diritto

PERUGIA - Prime note a caldo sul testo pubblicato sul sito del Governo dell'Avv. Bruno Pezzarossi
Con il disegno di legge presentato dal Governo per la modifica dell'articolo 18 dello Statutodei lavoratori si offre all'azienda che intende liberarsi di un dipendente sgradito la possibilità di farlo senza correre il rischio di una reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro (salvo ipotesi redisuali), e le si consente di pianificare il costo del licenziamento illegittimo.
Le ipotesi sanzionatorie dei licenziamenti illegittimi non sono tre, ma cinque.
1) licenziamento discriminatorio.
Occorre innanzitutto avvertire che il d.d.l. accomuna sotto questa voce tanto il licenziamento discriminatorio vero e proprio che il licenziamento della lavoratrice madre che quello adottato per causa di matrimonio. A queste tre ipotesi viene assimilato il licenziamento illecito ai sensi dell'articolo 1345 del codice civile.
Occorre subito osservare che la norma di tutela contro il licenziamento discriminatorio(articolo 3 della legge 108/1990) si applicava da allora "indipendentemente dalla motivazione addotta e quale che sia il numero dei dipendenti occupati dal datore di lavoro". Non è dunque vero che il governo abbia ampliato l'area di tutela contro il licenziamento discriminatorio, né è vero che lo abbia fatto con riferimento al licenziamento
della lavoratrice madre nell'anno dalla nascita del figlio o del licenziamento nell'anno dalle pubblicazioni di matrimonio quando a queste sia seguita la celebrazione dello stesso:anche queste due ipotesi erano sin dagli anni cinquanta sanzionate con la nullità del licenziamento quale che fosse il numero dei dipendenti del datore di lavoro.
Occorre poi aggiungere che non qualsiasi discriminazione rende illegittimo il licenziamento, ma solo la discriminazione per ragioni di credo politico o fede religiosa,appartenenza ad un sindacato, partecipazione all'attività sindacali, partecipazione ad unosciopero, per ragioni di razza di lingua o di sesso, di handicap, di età o basata sull'orientamento sessuale o sulle convinzioni personali.
Il richiamo alla illiceità del motivo, ai sensi dell'articolo 1345 del codice civile, amplia in verità la casistica del licenziamento nullo perché ai sensi di questa norma deve ritenersi nullo anche il licenziamento determinato da un motivo illecito e cioè contrario a norme imperative, all'ordine pubblico o al buon costume.
L'elencazione non deve trarre in inganno, però. Si tratta di una tutela destinata il più delle volte a rimanere sulla carta dal momento che il lavoratore che impugni un licenziamento denunciandone la discriminatorietà potrà ottenere sentenza nel senso richiesto soltanto quando dimostri che il licenziamento è stato determinato da una delle ragioni discriminatorio elencate in precedenza, o quanto meno, se è stata esposta un'altra ragione–come è sempre, ovviamente-_che la ragione discriminatoria è quella prevalente.
Siccome non è ragionevole attendersi che il datore di lavoro che voglia licenziare un lavoratore perché ad es. sindacalmente attivo lo dichiari nella lettera di licenziamento, la prova della discriminatorietà del licenziamento è la tipica prova diabolica, dal momento che occorre dimostrare-sia pure per presunzioni-che non per soppressione del posto o non per la eventualmente contestata ragione disciplinare il datore di lavoro si è determinato licenziare, ma proprio per l'attività sindacale del dipendente. In genere ogni e qualsiasi sforzo compiuto nelle aule giudiziarie per cercare di dimostrare la natura discriminatoria del licenziamento viene facilmente vanificato dalla adozione, da parte del datore di lavoro che licenzia, di un motivo disciplinare e/o connesso all'organizzazione del lavoro e quindi oggettivo. Con la conseguenza che il lavoratore che si impegni a dimostrare che vi sono ragioni discriminatorie alla base del licenziamento, dovrà anche dimostrare che quelle sono prevalenti rispetto alle altre ragioni addotte dal datore di lavoro, il che rende ovviamente la prova ancora più difficile.
Non è un caso, difatti, che pochissimi siano i casi nei quali il giudice ha stabilito la natura discriminatoria di un licenziamento.
Le stesse considerazioni devono farsi per il licenziamento illecito di cui all'articolo 1345 del codice civile.
In conclusione la nuova disciplina del licenziamento discriminatorio nulla aggiunge al regime precedente, dal momento che ben facilmente avverrà che la reintegrazione sarà disposta, come per il passato, solo con riferimento al licenziamento della lavoratrice madre e al licenziamento per causa di matrimonio.
E di questo un Governo tecnico dovrebbe essere ben consapevole.
Grave è pertanto che si presenti tale disciplina come estensiva di tutele e la si offra come argomento a bilanciare l'abrogazione di fatto della tutela reintegratoria predisposta dalla modifica.
Anzi, e a ben vedere, il datore di lavoro che ha attuato licenziamento discriminatorio, o che ha licenziato la lavoratrice madre, viene oggi premiato con una sanzione meno grave rispetto all’addietro quanto al regime della opzione per l'indennità sostitutiva della reintegra. Infatti, secondo l'orientamento prevalente della giurisprudenza formatasi sul testo vigente, anche dopo che il lavoratore aveva comunicato al datore di lavoro di optare per l'indennità sostitutiva della reintegra, il datore di lavoro doveva continuare a pagare la retribuzione fintanto che non avesse corrisposto tale indennità. Nel nuovo testo si dice invece chiaramente che la richiesta dell'indennità delle 15 mensilità sostitutiva della reintegra "determina la risoluzione del rapporto di lavoro": e così appare chiaro che l'obbligo retributivo del datore di lavoro si fermerà al ricevimento della richiesta del
pagamento dell'indennità e non proseguirà oltre, neppure se il pagamento intervenga a distanza di mesi, o non intervenga affatto spontaneamente.
2) licenziamenti disciplinari dichiarati illegittimi per l'inesistenza del fatto contestato al lavoratore oppure perché il fatto non è considerato sanzionabile con licenziamento alla stregua delle tipizzazioni contenute nei contratti collettivi applicabili al rapporto di lavoro. Sono equiparati il licenziamento intimato per superamento del periodo di comporto per malattia ma in realtà intimato prima di tale scadenza, e il licenziamento per inidoneità fisica o psichica del lavoratore ma non ritenuto legittimo dal giudice.
Qui il testo del disegno di legge si differenzia in modo significativo dalla bozza circolata nelle prime ore, perché viene introdotta una seconda ipotesi di licenziamento illegittimo sanzionato con la reintegrazione.
Infatti è previsto che in questi casi il giudice annulli il licenziamento, condanni alla reintegrazione e al risarcimento dei danni retributivi patiti nel limite massimo di 12 mensilità di retribuzione, oltre al pagamento dei contributi previdenziali e assistenziali.
Anche qui è prevista l'opzione per l'indennità sostitutiva della reintegrazione.
Il regime sanzionatorio previsto dal disegno di legge si differenzia in questo caso in misura significativa da quello dell'articolo 18.
Innanzitutto il risarcimento del danno per la retribuzione perduta, che decorre dalla data del licenziamento illegittimo a quello della reintegra, non potrà superare le 12 mensilità, mentre ora copre l’intero periodo. Con il che si pone a carico del lavoratore il rischio che il processo abbia termine a più di un anno dal licenziamento. E ciò con buona pace dei 270 più 60 giorni concessi al lavoratore per depositare il ricorso dall'articolo 32 della legge 183/2010. È da vedere come verrà articolato il “rito processuale veloce” per le controversie in tema di licenziamento di cui al d.d.l., ma già da adesso occorre pure sottolineare che non sono comprensibili le ragioni di tale concessione premiale ad un datore di lavoro che ha esercitato in spregio della legge il proprio diritto al recesso lasciando un dipendente senza lavoro e senza retribuzione.
La stessa logica premiale deve poi denunciarsi a proposito dell'obbligo di pagamento dei contributi previdenziali ed assistenziali, perché essi sono dovuti "dedotto quanto coperto da altre posizioni contributive eventualmente accese nel frattempo":se con quest'espressione vuole dirsi (come si leggeva nella prima bozza) che il datore di lavoro non è tenuto a versare i contributi per il periodo coperto dall'assegno di disoccupazione, allora si tratta di un irragionevole addebito sulla fiscalità generale delle conseguenze di un licenziamento illegittimo che debbono gravare su chi ha posto in essere la condotta sanzionata dal giudice. Ben più ragionevole e coerente non solo con i principi di responsabilità patrimoniale, ma anche con le esigenze di cassa dello Stato, sarebbe una norma che prevedesse l'obbligo per il datore di lavoro di versare i contributi per l'intero periodo, a prescindere dalla copertura offerta dalla indennità di disoccupazione.
Quanto al licenziamento per superamento del periodo di comporto per malattia occorresegnalare un buco normativo (speriamo involontario) il quale tuttavia conferma che ci si trova dinanzi ad un provvedimento pensato frettolosamente e, come si dirà meglio in seguito, ad un governo che non dà affatto dimostrazione di essere "tecnico", ma piuttosto politico: alcuni contratti di lavoro, in ciò dando attuazione ad una previsione contenuta all'articolo 2110 del codice civile, introducono il termine di comporto anche per l'infortunio lavorativo. La tecnica legislativa adottata dal d.d.l. (indicare con elencazione tassativa le fattispecie concrete alle quali si applica la nuova disciplina reintegratoria e relegare genericamente le altre nella disciplina "obbligatoria") è tale per cui in quest'ultimo caso, di superamento del comporto per malattia e per infortunio sul lavoro è da temere che al lavoratore licenziato prima del supero ma computando anche assenza per infortunio, non competa la reintegrazione ma solo l’indennità.
3) altre ipotesi di licenziamento soggettivo o disciplinare illegittimo.
In questi casi non è prevista condanna alla reintegrazione, ma al pagamento di un'indennità risarcitoria che il giudice può modulare tra 15 e 27 mensilità di retribuzione,tenuto conto di vari parametri.
A quali ipotesi il d.d.l. faccia riferimento non è dato onestamente capire (forse licenziamento per scarso rendimento, che è ipotesi a margine tra il licenziamento soggettivo e quello oggettivo; forse il recesso/licenziamento per mancato superamento della prova quando in realtà il termine della prova sia già spirato). La fattispecie pare identificata con sbrigativa superficialità, e tale approssimazione si riscontra anche nella mancata specificazione dei parametri ai quali dovrebbe attenersi il giudice nel modulare ilrisarcimento.
Quello che è certo è che la fattispecie è confinata tra quella di cui al numero precedente (licenziamento disciplinare o soggettivo in cui l'addebito non è dimostrato o è tale da non giustificare il licenziamento perché sproporzionato) e quella di cui al numero successivo (licenziamento disciplinare in violazione dell'articolo 7 Statuto lavoratori ).
Di fatto, ma lo si dirà più completamente con riferimento al licenziamento "oggettivo od economico", è del tutto irragionevole rimettere alla titolazione del licenziamento da parte del datore di lavoro la scelta tra la sanzione forte e la sanzione debole.
4) illegittimità del licenziamento soggettivo o disciplinare per il vizio della forma o sotto il profilo della procedura disciplinare.
Possono raggrupparsi sotto questo titolo i licenziamenti illegittimi per omessa pubblicità del codice disciplinare, per omessa contestazione, per difetto di tempestività o di specificità nella contestazione disciplinare, e, forse, per recidiva illegittimamente contestata.
In questi casi la giurisprudenza della Cassazione è pacifica nel ritenere che la giusta causa o il giustificato motivo soggettivo non adeguatamente contestati al lavoratore secondo i principi stabiliti dall'articolo 7 dello Statuto dei lavoratori non possono essere assunti dal datore di lavoro a legittimare il licenziamento.
La conclusione è clamorosamente aggirata dal nuovo testo il quale, il quale così individuando a ritroso una fattispecie autonoma di licenziamento illegittimo ma efficace, prevede sanzione specifica.
Per questa strada mentre si inibisce di fatto al lavoratore di difendersi compiutamente dal licenziamento (almeno nei casi nei quali la violazione dell'articolo 7 attenti al corretto instaurarsi del contraddittorio, e quindi limiti l'esercizio dei poteri difensivi nel successivo giudizio, ad esempio contestazione generica, o immotivatamente tardiva), si premia il datore di lavoro disinvolto disponendo che il licenziamento illegittimo risolve comunque ilrapporto di lavoro, escludendo la reintegrazione, e prevedendo condanna al pagamento di un'indennità ridotta, compresa tra 7 le 14 mensilità di retribuzione (il d.d.l. tanto con riferimento all'indennità del regime obbligatorio, quanto con riferimento all'indennità sostitutiva della reintegrazione evita-involontariamente, confidiamo- di specificare"retribuzione globale di fatto" come nel testo vigente). Ciò che si dimentica e che la violazione delle procedure di contestazione previste all'articolo 7 dello statuto dei lavoratori attiene più che alla forma alla sostanza del rapporto di lavoro, al bilanciamento delle armi nell'esercizio del potere disciplinare e che nella difesa da quello: in una parola al corretto svolgimento del rapporto di lavoro in quella fase particolarmente delicate patologica che attiene alla contestazione di un inadempimento.
Se la norma dovesse passare nella sua attuale formulazione diventa indispensabile, nellaredazione delle conclusioni del ricorso, articolare come domanda principale quella rivolta all'accertamento del difetto di giustificazione del licenziamento, perché solo in questo modo ai sensi dell'ultima previsione è possibile ottenere dal nuovo tutela reintegratori prevista per i licenziamenti ingiustificati; la denuncia del vizio formale dovrà essere
formulata solo in via subordinata. Non vi è dubbio tuttavia che ricomprendere nella fattispecie non solo i vizi formali ma anche i vizi procedimentali finisce per rendere più problematica l'impugnazione nel merito del licenziamento disciplinare. Ed anche questo è un argomento che un Governo tecnico non può ignorare.
5) i licenziamenti oggettivi o economici.
Questo è il punto più inaccettabile, ingiusto, ed incostituzionale del disegno di modificadell'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori.
È l'architrave del complessivo disegno di modifica del regime sanzionatorio, che si applicherà tanto ai licenziamenti spesi in buona fede come "economici" ma non ritenuti tali dal giudice, quanto ai licenziamenti disciplinari per i quali il datore di lavoro non si senta particolarmente certo delle proprie ragioni, che ai licenziamenti "gratuiti" (quelli comminati perché il lavoratore non soddisfa per i motivi più banali le attese del datore di lavoro), che, e a maggior ragione, ai licenziamenti decisi per inconfessabili ragioni discriminatorie.
Appare infatti inevitabile, bastando titolare il licenziamento per soppressione del posto di lavoro o per una altra qualsiasi ragione “inerente all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa" (questa è la definizione di licenziamento
per giustificato motivo oggettivo che si ricava dall'articolo 3 della legge 604/66) che per evitare la reintegrazione nel posto di lavoro, vi si faccia ricorso da parte del datore di lavoro tutte le volte che ci si voglia liberare di un lavoratore a tutti i costi, anche in difetto di
motivazioni legittime per il licenziamento.
La ragione per la quale si è prima sostenuto che è proprio con la resistenza su questa norma che il governo dimostra di non essere un governo tecnico, ma di essere un governo politico sta non soltanto nel fatto che anche qui, come al numero precedente, il tipo di sanzione viene deciso dal datore di lavoro nel momento stesso in cui sceglie di motivare il licenziamento come licenziamento economico o per giustificato motivo oggettivo.
Intendiamoci: già questa pare una censura molto grave dal momento che costituisce indubitabilmente un invito a comportamenti in frode alla legge e un pericoloso attentato al diritto al lavoro.
Ma basta anche soprattutto nel fatto che la sanzione solo risarcitoria resiste alla sentenza del giudice: si consideri che la misura solo risarcitoria viene mantenuta anche dopo che è intervenuto il giudice del lavoro a dichiarare inesistente il giustificato motivo oggettivo speso dal datore di lavoro, o la soppressione del posto di lavoro, o il nesso di causalità tra la riorganizzazione spesa nella lettera di licenziamento e il licenziamento stesso.
È paradossale che il licenziamento debba continuare a considerarsi come licenziamento per giustificato motivo oggettivo per ragioni economiche quando, sottoposto al vaglio del giudice, tale sua qualificazione non sia sopravvissuta.
Poco significativa appare, in rimedio, la previsione di “una correzione della regola attualmente posta dall'articolo 2 della legge 15 luglio 1966, numero 604, nel senso di rendere obbligatoria l'indicazione, nella lettera di licenziamento, dei motivi del medesimo".
Innanzitutto perché tale modificazione non pare suscettibile di modificare il regime sanzionatorio una volta che il datore di lavoro, ferma la norma per come è adesso costruita, abbia titolato il licenziamento per giustificato motivo oggettivo. In secondo luogo perché il d.d.l. non dice a quale sanzione deve assoggettarsi il licenziamento che sia dato, in contrasto con la progettata modifica, senza recare motivazione.

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