di Astolfo Lupia.

Pochi ricordano Enzo Scaini, dopo più di trentacinque anni; dopotutto non era Paolo Rossi. De Andreis e Gatto con il loro libro ripercorrono la sua breve vita, stroncata a soli ventisei anni da una vicenda su cui mai si è voluto fare chiarezza fino in fondo. Pare incredibile, ma morì subito dopo un intervento al ginocchio alla clinica Villa Bianca, a Roma. Era il ventuno gennaio dell’ottantatré, un’ora dopo l’operazione fatale. Gli autori ripercorrono il percorso giudiziario successivo alla sua morte, i tentativi di spiegare come sia stato possibile che un banale intervento di routine abbia potuto causare la morte di un uomo giovane, di un atleta in condizioni fisiche generali ottimali. Riportano fedelmente testimonianze e documenti dell’epoca; ricostruiscono le palesi incongruenze e contraddizioni che emergono da un raffronto delle testimonianze rese dal personale medico e dagli infermieri di quella clinica che allora era considerata, come si direbbe oggi, un’eccellenza per il tipo di intervento cui fu sottoposto lo sfortunato calciatore- molti suoi colleghi si erano affidati, con successo, alle cure degli “affermati professionisti” che lì esercitavano. Lasciamo al curioso lettore l’incombenza di seguire il puntiglioso lavoro degli autori, dal quale, c’è de esserne certi, ognuno trarrà conclusioni che non potranno non confermare quello che giù al tempo molti sospettavano. Che si sia trattato di un caso di grave negligenza da parte dell’intera équipe, che a vario titolo contribuì a quell’esito nefasto. A tali conclusioni non arrivò però la magistratura che dopo cinque anni di fervido e inefficace affaccendarsi dovette giungere alla conclusione che la causa del decesso non era da ricondurre all’operazione: qualcuno parlò addirittura di “morte improvvisa”. Il muro di gomma che ha difeso le posizioni dei prestigiosi professionisti coinvolti nella vicenda ha chiaramente impedito che la verità venisse a galla. L’oblio ha fatto il resto. Dopo qualche tempo a nessuno è interessato più capire cosa è successo quella lontana mattina dell’ottantatré. Ma oltre alla denuncia delle infami macchinazioni finalizzate a nascondere una verità fin troppo palese, delle gravissime mancanze di tutti coloro che a vario titolo furono coinvolti nella vicenda, il libro vuole essere un tributo ad un calciatore che, sfortunatissimo nella vita, neanche nella carriera riuscì a raggiungere quegli obiettivi che sicuramente sarebbero stati alla sua portata. Razza furlana, era un marcantonio di un metro e ottantotto, un gigante per la sua generazione. Aveva poi una grinta e un dinamismo eccezionali; ed un sinistro al fulmicotone. Certamente di lui si ricorderanno i giocatori della Juventus che, freschi campioni d’Italia, incontrano il suo Perugia, il trenta agosto dell’ottantuno. Il pronostico è tutto dalla parte dei padroni di sempre. Il Perugia non è più quello squadrone che solo due anni prima ha concluso imbattuto il campionato di Serie A, contendendo fino all’ultimo lo scudetto al Milan di Liedholm. Adesso è in serie B, ha pagato caro l’oltraggio di sfidare i grandi del calcio. Ma in panchina c’è il compianto Giagnoni e le speranze di tornare in A non sono poi così campate per aria. Tra i rinforzi c’è appunto Scaini, reduce da un ottimo campionato col Verona. E’ una sera di fine estate e la Juventus fa valere subito la propria superiorità, segna dopo poco dall’inizio della partita. Ma nel Perugia c’è un lungagnone coi baffi che non ne vuol sapere di arrendersi: un suo siluro si schianta sulla traversa di Zoff, la palla rientra in campo. L’urlo del gol gli resta strozzato in gola. Non demorde; imbecca Pin, che segna. Il goal viene annullato per fuorigioco. Dopo poco, la Juve , senza meriti particolari , segna il gol del 2-0. Sembra finita. Ma un altro formidabile tiro dalla distanza viene solo respinto da Zoff, è raccolto da Ambu che accorcia le distanze. In finale di partita Paolo dal Fiume, uno dei ragazzi di Castagner, riesce perfino a pareggiare, in casa dei campioni , Quella sera Scaini indossa la maglia numero 10, quella dei fantasisti, lui che fantasista non lo è mai stato. E’ però incontenibile, “una vera spina nel fianco”, scrive la Stampa.. Avrà forse pensato allora che era giunto il momento della gloria, del salto di qualità, dopo una vita “da mediano” nei campi di mezza Italia. Ben altro fu il suo destino. A Perugia non ingranò, i guai al ginocchio, il maledetto ginocchio non gli permisero di raggiungere quelle mete che gli saranno parse a quel punto vicine, raggiungibili. Il Perugia restò in B; lui l’anno dopo se ne andò a Vicenza; era serie C, ma la squadra era ambiziosa. Il ginocchio non gli dava tregua neanche lì: alla fine dopo un Vicenza – Trento, l’ennesima sostituzione per infortunio, decise di prendere il toro per le corna. Partì, destinazione Roma, a Villa Bianca. Ad accompagnarlo anche il figlio del presidente. Il finale è noto.

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