di Pietro Spataro

L’Italia è il Paese dei record negativi. A cominciare dal tasso di disoccupazione che ci vede in fondo alle classifiche. Il dato più preoccupante riguarda i giovani e quindi il futuro del Paese: i disoccupati, in questa fascia, hanno ormai raggiunto il 36 per cento. In Europa siamo nei primi posti anche per la precarietà (dei giovani, ma ormai anche degli adulti) e ultimi per equità nella distribuzione della ricchezza. L’Italia è, dal punto di vista occupazionale, il Paese più vecchio. Il motivo principale di queste performance è che da troppo tempo teniamo ai margini – quasi chiusi in un recinto – quelli che possono fare la differenza in creatività e innovazione: i giovani appunto.

Come ci rammenta un bel libro di Nicola Cacace, Equità e sviluppo, il futuro dei giovani (Franco Angeli editore) ormai da un trentennio le classi dirigenti italiane penalizzano questo pezzo importante di società. Non c’è politica industriale o programma per la formazione che abbia in qualche modo risposto alla domanda di futuro. Ma un Paese che non sa costruire un futuro, che non sa garantire lavoro e nemmeno produrre ricambio generazionale, quante speranze ha di sopravvivere nella sfida globale? Siamo dentro un circolo vizioso che va dalla precarietà occupazionale alle diseguaglianze di reddito, dalla scarsa innovazione delle produzioni alla sempre più ridotta domanda di lavoro qualificato. Questi handicap nella società della conoscenza sono invalidanti. L’Italia deve scegliere con determinazione, se vuole cavarsela, l’innovazione che è il valore aggiunto delle giovani generazioni e l’equità che vuol dire favorire una distribuzione equilibrata del reddito. Purtroppo siamo indietro su tutti e due gli aspetti. Abbiamo compiuto scelte in controtendenza, non abbiamo puntato sulla formazione e quindi sulla scuola, che resta purtroppo da tempo il nostro più grande buco nero: assenza di investimenti, tagli lineari, mancata capacità di innovazione, insegnanti sottopagati e invecchiati. L’istruzione, basta poco a capirlo, è il settore strategico. L’Italia invece continua a considerarlo solo un problema di spesa pubblica, da controllare o da ridurre. Basta parlare con uno studente italiano per cogliere la frustrazione di fronte all’offerta di progetti e di strumenti che ha un suo collega americano, o francese o tedesco.

È il problema dei problemi. La sinistra dovrebbe affrontarlo con serietà e con proposte innovative, anche facendo autocritica per quel poco che è stato fatto durante i governi degli anni passati. Se il Paese non riesce a far crescere una nuova classe dirigente all’altezza, se ai giovani sarà riservato sempre lo scantinato del lavoro (precarietà o part time che siano) e non saranno messi alla prova della creatività e del coraggio delle idee nuove, alla fine per l’Italia si ridurranno drammaticamente le capacità di costruire un domani. Perfino il ct della Nazionale Prandelli ha definito l’Italia un Paese vecchio, senza innovatori.
Nella società globale, ci spiega Cacace, i Paesi che vincono sono infatti quelli dove il binomio equità-innovazione è centrale. E dentro quel binomio ci sono i giovani. Che oggi invece sono mortificati in una società dove dominano i vecchi. E non si tratta della stupida guerra vecchi-giovani che ancora infiamma la polemica quotidiana. Ognuno ha il suo compito, a ognuno il suo posto. Ma è del tutto evidente che senza giovani bravi, preparati, meritevoli e anche con il coraggio di fare le giuste battaglie per un futuro migliore non avremo grandi possibilità di farcela. È un meccanismo perverso che ci porta solo del male, e che va interrotto al più presto. Per dirla con uno slogan: l’Italia deve diventare finalmente un Paese per giovani.

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