di Maria Pellegrini.

Alle Scuderie del Quirinale nel bimillenario della morte di Publio Ovidio Nasone, avvenuta fra il 17 e il 18 d.C. mentre era in esilio a Tomi (odierna Costanza in Romania) sul mar Nero, una grande mostra “Ovidio. Amori miti e altre storie” si propone di raccontare un poeta attraverso le immagini di capolavori d’arte di ogni epoca. Un’impresa affrontata con coraggio e competenza dalla curatrice Francesca Ghedini per ricordare il più immaginifico degli scrittori antichi e sottolineare l’importanza che la sua parola poetica ha avuto per secoli nell’immaginario culturale dell’Occidente.

Per raccontare Ovidio viene data voce a 250 oggetti tra reperti archeologici, sculture antiche, affreschi, manoscritti medievali e dipinti di età moderna, provenienti da numerosi musei e biblioteche nazionali e internazionali che accompagnano il racconto della vita del poeta e i temi al centro delle sue opere. È un viaggio alla scoperta del mondo poetico di Ovidio e della società romana della prima età imperiale ricostruite attraverso i suoi versi - dagli “Amores” all’“Ars amatoria”, dalle “Metamorfosi” alle disperate opere scritte in esilio: “Tristia” ed “Epistulae ex Ponto”.

Ovidio fu testimone del passaggio dalla Repubblica all’Impero al tempo di Ottaviano - divenuto poi Augusto -, che comportò un cambio di regime e un tentativo di restaurazione dei costumi. Al contrario di tanti intellettuali inizialmente nemici di Augusto, poi divenuti suoi amici o sostenitori, Ovidio - politicamente disimpegnato - finì la sua vita in esilio, dopo aver più volte chiesto e mai ottenuto il ritorno a Roma. Al motivo di tale condanna Ovidio accennò in modo vago in un passo delle sue opere scritte a Tomi affermando di essere stato punito a causa di due colpe: un “error”, forse il coinvolgimento in uno scandalo in cui era implicata la stessa famiglia imperiale, e un “carmen”, sicuramente una sua opera rivelatrice di una concezione del mondo disinvolta, sensuale, garbatamente cinica, in contrasto e senza possibilità di conciliazione con il programma di restaurazione morale perseguito da Augusto. Ma c’è un momento in cui Ovidio sembra voler rivelare qualcosa di più. È nel terzo libro dei “Tristia” quando suppone di essere stato punito perché «i miei occhi senza volerlo hanno visto cose che non dovevano vedere». Resta il mistero di cosa videro gli occhi del poeta.

Ovidio avvertiva la differenza tra il presente e il passato, ma, soddisfatto del tempo in cui viveva, scrisse con tono quasi di sfida: «Altri amino il passato, io sono contento di vivere in questa età che si addice ai miei costumi». Forse per eccesso di sicurezza o leggerezza - che gli derivavano dall’essere stato, per ragioni di età, estraneo al travaglio delle guerre civili - si comportò con spregiudicatezza dichiarando apertamente di amare gli agi e le raffinatezze della società mondana della capitale. Gli “Amores”, l’esordio poetico, scritto quando ancora non ha vent’anni manifesta assoluta eleganza formale, ma anche ironia, insofferenza nei confronti della morale tradizionale, senso acutissimo del divertimento dei sensi e insieme licenziosità di costumi.

L’“Ars amatoria” è un vero e proprio manuale giocoso e arguto sull’arte della seduzione, nel quale sono esposte le tecniche della conquista amorosa. L’intento del poeta, che definisce se stesso «tenerorum lusor amorum» (cantore di teneri amori) è già nei primi versi: «Se qualcuno tra i miei concittadini non conosce l’arte di amare / legga questi miei versi, e solo allora potrà amare da intenditore». Il poeta dà insegnamenti sulle tecniche che gli aspiranti seduttori devono seguire per conquistare l’animo femminile. L’amore dunque è ricerca, conquista, perché «ogni amante è un soldato» e l’amore è la sua conquista. Ma il seduttore deve essere anche un cacciatore e saper «tendere le sue reti» e il poeta indica le arti per sedurre una donna e rendere duratura quella conquista. L’amore di cui parla Ovidio non genera drammi e tanto meno tragedie: «Nulla se non amori voluttuosi qui da me s’impara». Per lui l’amore non è passione che travolge come per i suoi grandi predecessori elegiaci, è un gioco raffinato in cui la ragione è più importante del cuore. L’amore è trattato in modo dissacratorio: si esortano gli amanti a diffidare della sincerità, e a preferire l’arte di fingere: «Non importa se sarai costretto a mentire / Giove dall’alto ride degli spergiuri degli amanti / e ai venti di Eolo comanda di disperderli nel nulla».

L’“Ars amatoria” è un affresco della vita galante e mondana di Roma, dei portici affollati, dei banchetti sontuosi, delle pause alle terme, degli svaghi ai teatri e dei costumi raffinati che in quegli anni Augusto cercava di moralizzare. La poesia di Ovidio rappresenta una sorta di resistenza passiva e di assoluta estraneità alla restaurazione moralista e tradizionalista di Augusto. La vocazione libertina di Ovidio è prepotente e insieme aggraziata. Con quest’opera, un capolavoro di malizia leggera, egli diviene il beniamino dei circoli mondani e raffinati di Roma.

Quale divinità può rappresentare l’amore se non Venere che è la dea ispiratrice di tale sentimento? Nella mostra alle Scuderie del Quirinale si può ammirare la “Venere callipigia”, proveniente dal museo archeologico di Napoli, uno dei più belli esempi di scultura greca arrivato fino a noi nella riproduzione marmorea realizzata in epoca romana durante l’impero di Adriano. Più castigata è l’immagine della “Venere pudica” di Botticelli, ma davvero irriverente per Augusto doveva essere il racconto della Venere amante di Marte, sorpresa dal marito Vulcano e immortalata in seguito in affreschi pompeiani e da pittori rinascimentali e barocchi. Non doveva far piacere al reggitore dell’impero quest’immagine di Venere demitizzata che incarna il piacere dei sensi, quando il suo culto in Roma era molto sentito da quando Giulio Cesare, padre adottivo di Augusto, si era gloriato della mitica discendenza della gens Iulia da Iulo, figlio di Enea, nato dall’unione della dea con Anchise. Anche gli dei sono rappresentati da Ovidio nei loro tratti meno nobili, sono crudeli e vendicativi quando entrano in competizione o sono offesi dagli uomini. Sono prepotenti e astuti quando vogliono ottenere l’amore di ragazze o ragazzi restii al loro fascino. Apollo invaghito di Dafne che lo respinge, la insegue, ma la ninfa implora gli dei di tramutarla in albero. Giove si tramuta in toro o in cigno per insidiare Europa o Leda, Apollo sfidato da Marsia e vinto, scuoia vivo l’avversario per l’onta ricevuta, e Niobe, che fiera della sua numerosa prole offende Latona, è colpita dalla vendetta della dea; tutti i suoi figli sono uccisi saettati da Apollo e Diana e il dolore la trasforma in una roccia. Storie trasposte in vividi colori su tele o scolpite nel marmo che la mostra espone: dall’affresco raffigurante Leda e il cigno del 60-79 d.C. proveniente da Ercolano e oggi al Museo nazionale archeologico di Napoli, al Ratto d’Europa del Tintoretto, alle tre sculture del ciclo statuario dei Niobidi, prestate alle Scuderie dall’Istituto Autonomo Villa Adriana e Villa d’Este. Numerosi sono i protagonisti delle “Metamorfosi”, un’opera di vastissima cultura mitologica, prodigiosa fantasia, qualità formale, e soprattutto un gusto raffinato e al tempo stesso quasi infantilmente incantato per le favole del mito.

Alla sua stesura Ovidio lavora dal 2 all’8 d.C., anno nel quale, all’età di cinquanta anni, lo colpisce l’editto di relegazione a Tomi, inizio di un periodo di grande amarezza. La condizione dell’esule, considerata dal poeta una specie di morte civile, segna la fine della sua vita mondana e brillante.

La finalità del poema è “narrare di forme mutate in corpi nuovi”, come scrive l’autore nel proemio chiedendo agli dei di essere propizi alla sua impresa che prende le mosse dall’origine del mondo a partire dal caos primigenio. Procedendo da lì il racconto si snoda ininterrotto fino ai suoi tempi. Nonostante la frammentarietà dei singoli miti, unitaria è l’atmosfera. La narrazione attraversa tutte le età mitiche dell’uomo sulla terra: l’età dell’oro al tempo di Saturno quando si viveva un’eterna primavera, non vi era la guerra e l’uomo oziava, dovendo solamente raccogliere i frutti spontanei della terra; seguì, con l’avvento di Giove, l’età dell’argento, allora per la prima volta gli uomini si rifugiarono nelle spelonche. La terza, quella del bronzo, fu più violenta: cominciarono ad apparire le armi e con esse le guerre; ma l'età del ferro fu la peggiore: l’uomo compì ogni tipo di frode, insidia, violenza, e sentì cupidigia di ricchezza. La terra fu suddivisa tra i popoli e i mari solcati da navi. Le guerre sconvolsero la vita degli uomini. Il diluvio pose termine a queste fasi. Solo Deucalione e Pirra si salvarono e l’umanità riprese il suo cammino con nuove generazioni. Attraverso molteplici vicende di personaggi che appartengono per lo più al mito greco si arriva alla divinizzazione di Giulio Cesare trasformato in astro e alla celebrazione di Augusto, ormai dominatore del mondo, ma l’adesione all’ideologia augustea non appare particolarmente sentita dal poeta, come invece era stato per Virgilio.

Ovidio dunque rinuncia all’epica guerresca, anche se non mancano spunti di questo filone in cui le guerre sono rivisitate nell’ottica della metamorfosi che è il filo conduttore e il principio unificatore del poema: semidei, eroi, uomini comuni sono mutati in animali, alberi, fiori, minerali, fonti d’acqua, oppure in puro suono, come nel caso della ninfa Eco.

Fino a tutto il Rinascimento l’opera è letta e apprezzata dai più importanti autori: Dante colloca Ovidio con Omero, Orazio e Virgilio fra i poeti sommi del Limbo; Petrarca e Boccaccio lo ammirano per la sua arte. Nei secoli XVI-XVII gli influssi delle “Metamorfosi” sono evidenti nel teatro elisabettiano e Ovidio è il poeta preferito da Shakespeare. I nostri poeti crepuscolari da Corazzini a Gozzano sino al Pascoli amano immergersi in queste favole. Da più di duemila anni il poema “Metamorfosi”, opera epica nella forma, ma aderente alla sensibilità del suo tempo, affascina, seduce, ispira ed esprime la vittoria della fantasia, la capacità di creare favole, l’abilità d’introspezione nei labirinti dell’animo umano. Ovidio non narra cambiamenti naturali ma con potenza immaginifica descrive trasformazioni fantastiche che hanno influenzato in seguito la poesia, la letteratura, l’arte figurativa, il teatro di ogni epoca, rendendo quei miti immortali.

Chi non conosce la storia di Narciso che si consuma nell’amore di se stesso fino a trasformarsi nel fiore omonimo; di Dafne, mutata in alloro per sfuggire all’amore di Apollo; di Arianna abbandonata su una spiaggia deserta da Teseo che lei aveva aiutato donandogli il filo per uscire dal Labirinto: Bacco ne ha pietà, se ne innamora e la muta in costellazione; di Filemone e Bauci, gli anziani coniugi che si amano teneramente e chiedono a Giove di morire e rimanere sempre insiemi: sono accontentati e mutati in tiglio e quercia. In incalzante successione si susseguono miti di teneri amori coniugali, di passioni respinte, di orribili vendette, di crudeltà maschili verso la donna amata, o storie di fiori nati da trasformazioni fiabesche. Tutti i protagonisti sono espressione di passioni o infelicità degli uomini, il loro bisogno di tenerezza, di incantesimi, ma anche il loro compiacimento per torpide ossessioni, sentimenti irrazionali, passioni morbose.

Racconti ovidiani tratti dal mito greco come quello dell’Ermafrodito o di Narciso li troviamo nella mostra rappresentati nella statua dell’Ermafrodito dormiente proveniente dal Museo Nazionale Romano, o nella tela del Caravaggio con il fanciullo che si specchia nell’acqua, dalla Galleria Nazionale d’Arte Antica di Palazzo Barberini a Roma o l’innamoramento di Bacco per Arianna abbandonata da Teseo su una spiaggia visibile nel quadro del settecentesco Pompeo Batoni, o il mito di Adone interpretato da Tiziano. Ganimede, l’adolescente mortale rapito dall’aquila di Giove e asceso all’Olimpo per divenire coppiere degli dèi, è presente nella ultima sala della mostra raffigurato nel momento in cui gli artigli dell’aquila lo afferrano e lo conducono verso il cielo. Tutta la produzione artistica presente nella mostra evidenzia la fortuna ovidiana nei secoli, restituendoci la potenza e la forza della sua poetica.

Ma altro ci riservano le Scuderie del Quirinale. Il Museo Archeologico Nazionale di Aquileia ha colto l’opportunità di collaborare a questo importante progetto espositivo attraverso il prestito di numerose opere. Manufatti in ambra di squisita lavorazione che ritraggono Amore e Psiche, anelli intagliati con ritratti di raffinate matrone romane dalle acconciature elaborate, ma anche piccole sculture e oggetti da toeletta, come le pissidi e le scatoline lavorate a intaglio, amuleti, collane e gemme vitree, ed anche un grande specchio in bronzo e una trousse destinata a contenere l’occorrente per il trucco: oggetti che ci raccontano di un mondo elegante dai gusti ricercati e rimandano a un’altra opera di Ovidio: “Medicamina faciei” un vero trattato di cosmesi. Alle donne che vogliono mantenere vivo l’amore dell’uomo, il poeta consiglia come rendere più seducente il proprio aspetto. La bellezza però deve essere unita anche all’amabilità del conversare, al saper danzare, partecipare a giochi di società, smussare gli spigoli del carattere, saper essere allegre perché «le donne tristi sono antipatiche». Il poeta ci tiene a essere ricordato maestro delle giovani amanti tanto che nel distico finale sottolinea la sua funzione: «Le donne, mie seguaci, scrivano sulla tomba: ‘fu Ovidio il mio maestro’».

Da Aquileia è arrivata anche la statua monumentale che ritrae l’imperatore Augusto in vesti sacerdotali, non poteva mancare in questo spazio espositivo la figura di chi ebbe una parte determinante nella vita del poeta che per suo ordine fu relegato in una terra lontana senza mai poter rivedere Roma.

«Ma - suggerisce Francesca Ghedini - la sua poesia sopravvisse e lo rese immortale: sopravvisse alle ingiurie del tempo, al confino, all’ostracismo decretato contro le sue opere, sopravvisse alla volontà del reggitore dell’Impero di annientare quel contestatore ante litteram, capace di ferire con la sua ironia dissacrante, con il suo gusto per il paradosso, con quel suo gioco un po’perverso di mettere gli dei alla berlina». E aggiunge con soddisfazione «si è realizzato l’antico sogno di Ovidio: il suo ritorno a Roma».

Condividi